RAWA, l'Associazione rivoluzionaria delle donne dell'Afghanistan, è attiva da 25 anni. E' stata fondata a Kabul nel 1977 da un gruppo di donne intellettuali sotto la guida di Meena, una insegnante e poetessa che fu assassinata nel 1987 dagli agenti afghani dell'allora KGB in connivenza con i fondamentalisti di Gulbuddin Hekmatyar.
RAWA sostiene una posizione politica in difesa della laicità e della democrazia e contro ogni forma di fondamentalismo. RAWA svolge anche un lavoro sociale sia in Afghanistan che tra i profughi in Pakistan. Ha aperto scuole, orfanatrofi, corsi di alfabetizzazione per le donne adulte, gruppi di sensibilizzazione sui temi della salute, dei diritti, della democrazia.
In una popolazione femminile sofferente per gravi problemi depressivi - le statistiche parlano di percentuali che rasentano il 98%- le donne di RAWA hanno cercato di mantenere viva la consapevolezza dei diritti e la speranza di un cambiamento. E nella desertificazione della società civile devastata dalla guerra, dal fanatismo, dall'esilio, hanno preservato semi di cultura e di civiltà che rappresentano la sola prospettiva di futuro.
Era il maggio 2001, quando Mariam Rawi e Zoya Gathol, invitate dalle Donne in Nero, incontrarono per la prima volta le cittadine e i cittadini di Udine. L’assemblea era attenta alla loro testimonianza, partecipe e grata per l’esempio di coraggio e semplicità che le giovani donne di Rawa offrivano nel denunciare l’arroganza e il potere liberticida dei Taleban; era ammirata per l’esempio di resistenza nonviolenta, per la tenacia con cui si ostinavano a gettare i semi per un futuro di libertà, nella loro terra martoriata.
Sappiamo che le afgane e gli afgani guardano alla Resistenza italiana come realtà compiuta di una possibilità che nel loro Paese è drammaticamente remota, un luogo simbolico cui attingere forza, poiché alimenta un necessario percorso di speranza. Ed è per questo che la proposta di partecipare al corteo del 25 aprile con le Donne in Nero ha destato la loro immmediata adesione.
In una giornata straordinariamente soleggiata, a coronamento della cerimonia della consegna del premio che da lì a poche ore avrebbero ricevuto al Centro di Accoglienza Balducci, hanno quindi sfilato insieme a noi DiN di Udine e di altre città, e donne del Cisda, convenute per la premiazione.
Abbiamo sfilato con la consapevolezza di partecipare a un evento che trascendeva i limiti temporali delle nostre vite e i limiti spaziali delle distanze geografiche. In un grande abbraccio di riconoscenza ci siamo unite a chi ha lottato durante la Resistenza perché non sopportava l’ingiustizia, perchè potesse essere realizzato un mondo fondato sul rispetto dei diritti di tutte e tutti, sulla pace.
Ed è allora forse anche per questo che le donne afgane cercavano fra i volti consumati dalle rughe e fra le bandiere, un viso di donna che potesse concretizzare almeno in parte tale abbraccio. Volevano comunicare a una donna partigiana l’importanza dell’esserci a quella manifestazione, e l’hanno trovato in chi, dopo averle incoraggiate a proseguire il loro percorso, in primo luogo quello della liberazione dall’oppressione maschile, si è tolta il fazzoletto dell’Anpi per darlo a Sahar, che lo ha annodato sulla testolina della figlioletta di quattro mesi. Un gesto di consegna, di un passaggio, che ci ha profondamente commosse.
La consegna del premio si è tenuta presso il Centro di Accoglienza Balducci di Zugliano. Un lunghissimo e sentito applauso ha accompagnato poi Mariam, quando dal pubblico si è mossa per prendere posto al tavolo delle relatrici e dei relatori. La sua testimonianza ci ha parlato di un Afganistan ancor più violento e alla deriva di quanto già non fosse alla vigilia dell’intervento armato occidentale.
Nel 2001 tre furono gli obiettivi che venivano propagandati per giustificare la guerra in Afganistan: portare libertà e diritti alle donne, la democrazia e vincere il terrorismo. Ma la situazione attualmente è gravissima, molto più grave di quanto la stampa internazionale non riporti, poiché la strategia statunitense adottata per estirpare il potere dei talebani si è tradotta in uno scendere a patti con criminali di guerra e fondamentalisti, che sono confluiti in partiti come l’Alleanza del Nord e che attualmente compongono – come sostiene Human Rights Watch – l’85% del Parlamento afgano.
Strategie come quelle di intavolare trattative con i talebani cosiddetti “moderati” - oppure con criminali come Gulbuddin Hekmatyar – non possono avviare e non hanno avviato un percorso di pacificazione ma hanno condotto a una nuova recrudescenza del conflitto. E i paesi europei – Italia compresa – si sono adeguati alla politica statunitense.
Le conseguenza dell’assetto di potere in Afganistan rendono drammatica la condizione della donna: “Violenze e stupri su minorenni e donne molto anziane, stupri di gruppo, matrimoni forzati, anche di giovanissime” sono all’ordine del giorno e Rawa ne è testimone indiretta.
“La percentuale di donne che si suicidano appiccandosi il fuoco è aumentata vertiginosamente, così come frequenti risultano gli attacchi con acidi a studentesse e insegnanti”.
Tuttavia, l’atto più grave e che non ha termini di paragone con nessun altro paese, secondo Mariam, è la recente legge varata dal parlamento afgano che nega il diritto di movimento e di autodeterminazione delle donne. La realtà, afferma, è che
“siamo tornate al periodo dei talebani e gli Usa non stanno facendo nulla di fronte alla lesione di elementari e fondamentali diritti come quelli di uscire e studiare. Era necessaria una guerra per liberare le donne dal burqa, sostenevano, ma a distanza di otto anni, nessuna donna circola senza burqa o chador per il terrore di essere aggredita dai fondamentalisti di diversa estrazione”.
Altri sono ancora i punti su cui Mariam si interroga: come si può in nome della lotta al terrorismo bombardare città e villaggi, uccidendo civili inermi? Inoltre, con un parlamento così corrotto e in mano a fondamentalisti criminali di guerra, in quali tasche finiscono gli aiuti economici provenienti dalla comunità internazionale?
Per la popolazione è evidente, inoltre, che la conseguenza del rafforzamento della presenza occidentale in Afganistan comporta solo la costruzione di ennesime basi militari.
“Il Parlamento afgano, sostenuto dagli Occidentali, di democratico non ha nulla e chi lo contesta con gli strumenti della democrazia viene perseguitato. È il caso dei giornalisti indipendenti come Sayed Kambaksh che, condannato a morte, ha visto commutata la pena in 20 anni di detenzione. Ma come lui molti altri sono incarcerati o sono stati addirittura uccisi. Il Parlamento afgano, sostenuto dagli Occidentali, di democratico non ha nulla se una delle condizioni poste per far passare la legge sulla ricostruzione è stata l’impunità totale per i crimini di guerra commessi da coloro i quali attualmente siedono in Parlamento.”
Si è chiesta inoltre Mariam che democrazia abbiano mai portato gli Occidentali in Afganistan, se vengono minacciate le voci di “associazioni come Rawa, mentre i signori della guerra sono liberi di fare e disfare quello che vogliono”.
Nessun commento:
Posta un commento