giovedì 20 dicembre 2012

Vicenza Città Occupata

Dai colli alle Alpi. Tra i boschi e lungo i fiumi. Nelle grotte e tra le case. Vicenza è una grande zona militare.

Un reticolo di basi, installazioni segrete, depositi sotterranei al servizio della 173^ brigata aerotrasportata statunitense, recentemente trasformata in combat team e divenuta il “pugno di ferro” del braccio armato nordamericano.

Centri di addestramento e di comando dove vengono dirette le operazioni di Africom, la nuova struttura voluta dal Pentagono per controllare l’Africa ricca di risorse indispensabili e il Medioriente sempre più instabile.

Laddove trovi un cartello giallo con disegnato un soldato che imbraccia il fucile, sai che non potrai entrare. Gli occhi del visitatore, così curiosi di ammirare la bella Vicenza patrimonio Unesco, non potranno spingersi oltre le recinzioni e il filo spinato.
 
Top secret.
Segreto militare.

  • A Camp Ederle potrete trovare maxischermi per la guida delle truppe in battaglia, centri di comando e spazi di addestramento e, con un pò di fortuna, un generale pieno di stellette pronto a decantarvi le virtù dei combattenti a stelle e strisce.
  • Dal Molin: Grandi palazzi dormitorio in stile palladiano, autofficine per mezzi pesanti, depositi e parcheggi: un grande piano di urbanizzazione militarizzata laddove, fino al 2008, c’era un grande prato verde.
  • Sito Pluto: Mine nucleari! I bunker multilivello e le gallerie sotto i colli berici - e nel cuore di un’area protetta - sono i luoghi nei quali, gli statunitensi, hanno stoccato queste micidiali armi tattiche. A
  • Torri di Quartesolo di armi e munizioni ce ne sono per tutti i gusti!
  • Fontega: Vecchie e arrugginite munizioni - secondo i militari statunitensi - custodite in un incantevole sito circondato da reti e fili spinati.
  • Villaggio della Pace: Serene e spensierate famiglie dei soldati statunitensi all’interno di un complesso “palladiano” composto di mura di recinzione e sistemi di videosorveglianza ad altissima tecnologia.

domenica 2 dicembre 2012

Chi Controlla L'Oppressore? L'Esperienza di Machsom Watch

 
Nella parola ‘indignazione’ è contenuto il termine ‘dignità’: è per rispetto e amore verso me stessa che devo denunciare le ingiustizie.
 
Daniela Yoel

La Settimana scorsa, si è tenuto l'incontro alla casa Internazionale delle donne, a Roma, con Daniela Yoel, israeliana, ebrea ortodossa ed attiva nel Machsom Watch.

Machsom Watch, che fa parte della rete Coalition of Women for peace, è nato nel gennaio del 2001 in risposta alla violenza della seconda Intifada e da allora conduce osservazioni giornaliere di posti di blocco dell’esercito israeliano (in ebraico machsom) nei Territori palestinesi occupati.

Daniela ci ricorda che anche nei periodi di tregua, quando non ci sono operazioni militari o resistenza armata, l'occupazione continua - crudele, ingiusta, disumana, e omnipresente nelle vite quotidiane dei Palestinesi.

Qui di seguito il resoconto del suo intervento nel report scritto da Cecilia Dalla Negra per Osservatorio Iraq.

In una fredda mattina di febbraio di 11 anni fa cinque donne si avvicinano al check point 300, tra Betlemme e Gerusalemme. Non sanno bene cosa fare: ci sono i soldati con gli M-16, i palestinesi in fila, fa freddo. Si fermano, indecise su come comportarsi, ma sicure che sia necessario agire. Quando il soldato chiede loro cosa sono venute a fare laggiù, la più intraprendente si guarda intorno: verso la colonia di Har Homa il sole splende. “Beh, siamo venute a goderci questa bella giornata."

Così Yehudit Keshet racconta l’inizio – “magari non esplosivo” – del lungo percorso di Machsom Watch, l’organizzazione femminile israeliana che da anni presidia i check point (in lingua ebraica machsom) per denunciare le violenze e gli abusi contro i cittadini palestinesi nei Territori Occupati.

Se c’è un oppresso c’è anche un oppressore. Quello che troppo spesso manca è qualcuno che si incarichi di monitorare l’oppressione. Quelle cinque “pioniere” diventano in breve cinquecento: è il 2001, è in corso la Seconda Intifada. Un periodo terribile, che vede il moltiplicarsi continuo di check point e posti di blocco israeliani. “

C’è un’occupazione là fuori: è feroce e immorale: dobbiamo stare dalla parte di chi la oppone, senza esclusione di colpi”,

sostiene quel gruppo di donne, che sceglie di non ammettere uomini “perché non sono capaci di mantenere il controllo davanti ai militari”. Sono loro a commettere abusi e violazioni contro una popolazione civile cui è negata la libertà.

Le donne diMachsom Watch sono realiste: capiscono di non poter vincere contro la forza del governo e le armi dell’esercito: ma possono almeno testimoniare quelle violazioni, fungere da deterrente verso i soldati, essere l’occhio attento che guarda, registra, denuncia. La spilla con l’occhio aperto che portano addosso diventerà conosciuta: loro, in breve, una fastidiosa spina nel fianco dei militari.
 
I loro report, aggiornati quotidianamente, vengono inviati a stampa e governo nel tentativo di rendere evidente un fatto: nessuno, in futuro, potrà dire “io non sapevo”.

È anche la convinzione di Daniela Yoel, una delle ‘nonne’ di Machsom Watch, ospite insieme a Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento Europeo, di un incontro organizzato da Associazione per la Pace alla Casa Internazionale delle Donne di Roma.

Daniela ogni mattina da 11 anni si sveglia, prende il caffè e va a presidiare un check point: proprio perché
“in Israele la gente ogni mattina si sveglia, prende il caffè e non vuole saperne niente di quello che succede al di là del muro”.

Ebrea ortodossa osservante, Daniela appartiene alla prima generazione nata in terra di Palestina da genitori immigrati:

“Israele per me e quelli della mia generazione ha un significato enorme. Perché forse come ebrea non mi sentirò a mio agio da nessuna parte; ma come israeliana ho una patria, e la patria è quella di cui ci si può anche vergognare”.

  È una concezione particolare la sua, religiosa praticante in un contesto di attivismo per i diritti umani come quello di Machsom Watch, per la maggior parte laico e femminista.

“Come religiosa mangio kosher: per spiegare la schizofrenia nella quale vivo racconto sempre che non posso parlare con quelli con cui posso mangiare, e non posso mangiare con quelli con cui posso parlare”.

Perché la verità è che
“Israele è un paese di destra, e le persone che mi circondano non vogliono sapere quello che il governo fa in loro nome”.

  Non è così per lei, che 11 anni fa ha scelto di dedicare il tempo che la pensione da studiosa le concedeva per presidiare i posti di blocco che l’esercito del suo paese impone e controlla.

“Un giorno di molti anni fa venni a sapere che una donna palestinese, incinta di due maschi, era stata bloccata a un check point mentre cercava di raggiungere l’ospedale. Fermata dai soldati, fu costretta a partorire in strada, per terra. Entrambi i suoi bambini morirono, e le fu concesso di passare solo quando fu evidente che anche lei stava per morire”.

Una storia di ordinaria amministrazione nei Territori, di disumana quotidianità. Che la colpisce, perché

“in quello stesso periodo anche mia nuora era incinta di due maschi. Che sono nati normalmente in un ospedale, e che oggi sono i miei nipoti. Da quel momento non ho potuto fare a meno di pensare a quale enorme differenza ci fosse tra queste due esperienze; a che tipo di trauma quella donna palestinese ha dovuto affrontare e al fatto che se fossi stata presente, forse i soldati l’avrebbero lasciata passare”.

Perché in una mente educata “all’odio, alla violenza e al machismo”, come quella dei militari, e in un paese “in cui il simbolo della società è l’erezione nazionale”, vale più un concittadino israeliano che ti osserva di centinaia di palestinesi “a cui viene rubata una cosa molto più preziosa di qualsiasi bene materiale: il tempo. Qualcosa che una volta portata via non può più essere restituita”. Il tempo negato di uno spostamento, all’apparenza banale, da casa al posto di lavoro.

“Non si capisce per quale ragione i palestinesi debbano avere speciali permessi anche solo per andare a dormire”.

Daniela Yoel, come tanti altri attivisti israeliani per i diritti umani, è considerata dai suoi compatrioti una self-hating jew, una di quegli ebrei che devono necessariamente odiare loro stessi per poter criticare il proprio stato. Un’accusa che respinge:

“E’ vero il contrario. Nella parola ‘indignazione’ è contenuto il termine ‘dignità’: è per rispetto e amore verso me stessa che devo denunciare le ingiustizie. È scritto persino nel Talmud. E se chi ci governa in questo modo sostiene di essere ebreo, allora io non sono ebrea. Stare in disparte non è possibile, se testimoni dolore è tuo dovere cercare di alleviarlo”.

È una lettura mossa dal profondo attaccamento a valori religiosi quella di Yoel. Lei, che nel suo paese è minoranza di una minoranza, ben consapevole della sproporzione di forze in campo.

“Non posso vincere contro il governo e l’esercito, ma posso portare il mio corpo e miei occhi laddove ci sono violazioni. Non si combatte una battaglia solo per vincerla, ma anche perché la causa è giusta”.

Quello palestinese è un territorio barbaramente depredato, lo dimostra anche il filmato che mostra a una platea attenta, quasi tutta al femminile. È stato girato dalle donne di Machsom Watch nei pressi della colonia di Efrat, tra Betlemme e Gerusalemme. Sul sottofondo musicale di una preghiera cabalistica si muovono le ruspe israeliane che distruggono una vallata e i suoi albicocchi, proprietà di contadini palestinesi. Al loro posto verranno costruite le fognature a cielo aperto necessarie alla colonia.

“La preghiera chiede a Dio che il grido degli ebrei sia ascoltato. Adesso la situazione è un po’ cambiata”, commenta. “Gli architetti del male sono pochissimi, ma hanno bisogno di gente che non vuole sapere. Accadde così anche al mio popolo: noi non possiamo permetterci di dire ‘io non sapevo’, come fecero altri con 6 milioni di ebrei”.

  E se un paradosso crudele mostra un popolo a lungo senza radici sradicare quelle altrui, distruggendo alberi, terra e storia, diventa importante agire per fermare la violenza.

“Chi sarebbe disposto a lasciar andare la sua preda se non c’è nessuno che lo costringa a farlo? Quello che chiedo è che ognuno faccia pressione sui propri governi. Non solo per i palestinesi, ma per salvare Israele da se stesso”.

Una battaglia impari, che va comunque combattuta secondo le donne di Machsom Watch. Ecco perché alla domanda “voi cosa fate” hanno una sola risposta da dare: “Tutto quello che possiamo”.