domenica 1 novembre 2015

Non ci arrenderemo alla disperazione

  Questo è il titolo di una manifestazione – tra le tante di questo mese – che si è svolta a Gerusalemme il 17 ottobre 2015, in cui ebrei ed arabi sono scesi in strada insieme per un futuro comune. E’ una volontà di resistere che viene di lontano; già nel 2000, all’inizio della Seconda intifada, donne palestinesi e israeliane si erano unite all’insegna dello slogan We refuse to be enemies (Ci rifiutiamo di essere nemiche).
Arabi ed Ebrei rifiutano di essere nemici: Vogliamo vivere in sicurezza. Senza occupazione e senza uccidere.
 Sappiamo fin troppo bene che solo una soluzione equa del conflitto può fermare la violenza e l'odio, 
costruire una realtà diversa e garantire la sicurezza. 

Oggi una nuova generazione è scesa per le strade ribellandosi all'ingiustizia e alle umiliazioni, all’oppressione dell’occupazione, all'espropriazione violenta di terre, alle demolizioni di case, alle misure razziste messe in atto dal Governo israeliano nei confronti dei palestinesi anche se cittadini di Israele. Inoltre l'espansione degli insediamenti coloniali illegali in Cisgiordania, in particolare a Gerusalemme, ha confinato i palestinesi in bantustan sempre più ridotti.

La risposta del governo israeliano è una feroce repressione basata su un uso schiacciante della forza militare e sempre più numerose uccisioni per reprimere le proteste popolari. Il linciaggio di giovani uomini e donne semplicemente perché "sembrano arabi" è in aumento.

La disumanizzazione del popolo palestinese è tale da lasciare impuniti anche crimini orrendi come quello di cui è stata vittima la famiglia Dawabsha nel villaggio cisgiordano di Kfar Douma: sembra quasi incredibile che gli efficientissimi servizi segreti e l'esercito israeliano non abbiano ancora catturato gli estremisti ebrei che due mesi fa diedero fuoco alla casa della famiglia,. Quel rogo carbonizzò il piccolo Ali, di 18 mesi, e nelle settimane successive morì anche il padre, Saad, e la madre, Riham; da allora, resta in ospedale l’unico sopravvissuto, il primo figlio, Ahmad, di 4 anni. I medici sperano di salvarlo, ma in ogni caso la sua vita resterà segnata fisicamente dalle conseguenze di ustioni gravissime (sul 60% del corpo) e psicologicamente dalla perdita di tutti i familiari più stretti.

Rispetto alle pretese del governo di Israele di “normalizzare” l’ingiustizia intollerabile dell’oppressione e della repressione, la rivolta palestinese non è un’anomalia, ma “una lotta di lungo respiro che non si fa illusioni”, come ha affermato di recente lo scrittore libanese Elias Khoury,. “Si tratta di un popolo che resiste per difendere la propria esistenza” e in questo senso occorre guardare oltre la “disperazione” per riconoscere piuttosto la “rabbia e tenacia (sumud in arabo)” con cui si battono donne e uomini palestinesi.

I mezzi di comunicazione italiani scoprono la violenza in Palestina solo quando esplode l’esasperazione dei palestinesi. Noi, Donne in Nero, siamo invece consapevoli che da anni dura l’oppressione dell’occupazione israeliana e che quanto sta succedendo è la conseguenza delle continue violenze che segnano la vita quotidiana dei palestinesi a Gerusalemme, nei Territori Occupati e nella Striscia di Gaza.

Tutti coloro che nel mondo amano la pace sono chiamati innanzitutto ad impegnarsi per porre fine alla complicità dei rispettivi Stati, così come delle imprese, delle istituzioni, nel mantenere il regime israeliano di occupazione, colonialismo e apartheid.