Ecco la riflessione di Franca, una di queste donne.
Di ritorno dalla striscia di Gaza – otto Donne in Nero e una giornalista, - è difficile riprendere a vivere la vita quotidiana come se niente fosse. È piuttosto difficile persino provare a scriverne: il foglio bianco, la biro, il pc, c’è un rifiuto collettivo delle cose. È più facile scivolare in questo lento rifiuto e attaccare la montagna di panni da stirare (stirarli bene, togliere tutte le pieghe, ripulire, cancellare) e le pile di fogli e giornali che si riproducono in casa con la forza di un processo quasi biologico.
Di ritorno da Gaza le amiche mi accolgono con largo sorriso: “poi ci devi raccontare del tuo viaggio in Palestina!” Poi passano subito a parlare di qualche questione locale che le avvince, il delitto di Meredith, le melliflue riverenze del servo Saccà al padrone, la nuova ricetta di uno sformato alla turca e il modello di una sciarpa a tubo made in China. Quel “poi” oggi va bene anche a me: poi, poi.
Sarà stato un viaggio bellissimo, azzarda qualcuna. Bellissimo non è la parola più adatta, non è questione qui di bellezza o bruttezza, è stato un viaggio all’inferno, dico, sapendo di esagerare oppure più onestamente “molto faticoso”.
Questo bisogno di fuga, questa difficoltà a parlarne… l’associazione è con la difficoltà a “parlarne” di tutte le situazioni e i vissuti di umiliazione, di violenza subita o di cui ci sente complici: condivido il bisogno di silenzio, o meglio l’impossibilità di parlare da parte delle donne maltrattate dagli uomini che amano, che non parleranno per la fatica di lasciar riemergere in superficie questo senso insieme di impotenza, di umiliazione , di ferita profonda, e il senso di essere in qualche modo responsabili di quel che avviene e di non sapere che cosa fare. Lo stesso silenzio di chi torna da quell’Africa dove l’olocausto dell’infanzia è quotidiano.
Eppure questo silenzio è un muro più alto di tutti i muri che recingono le nostre famiglie, che recingono i villaggi della Palestina. E noi continuiamo a costruirlo, mattoncino dopo mattoncino, lo costruiamo intorno a noi, a difesa, crediamo, del nostro io, in pericolo, del nostro “benessere”. Il silenzio, lo so, è un vero terreno fertile per il riprodursi della violenza, il silenzio può diventare la causa prima della violenza, il segno della sua tolleranza.
Di ritorno da Gaza, in prossimità di Natale, alle mail di auguri che ricevo rispondo con qualche riga del tipo “Gaza è una prigione sotto assedio” .
Dopo un po’ mi rendo conto che le persone non vogliono che si parli di queste cose. Sanno che esiste questo bubbone nel cuore del mondo, questa ferita aperta, con una ricetta/terapia internazionale già data dagli organismi internazionali, che però nessuno vuol fare eseguire . Come è difficile accettare che sia il proprio intimo a massacrarci di botte, è difficile dire denunciare che sono i governanti dei discendenti delle impotenti vittime dell’olocausto, ad essere diventati, in nome della “sicurezza”, i costruttori di nuovi ghetti, e di un nuovo discorso razzista verso gli abitanti della Palestina. Lo si sa ma si preferisce ignorarlo, pensare ad altro.
Di ritorno da Gaza piccolo brindisi al mio Dipartimento di Sociologia per le festività di fine anno e per rafforzare il senso di “appartenenza”. Qualcuno mi chiede che cosa sto facendo. Racconto in poche parole della mia ricerca in “territori difficili” sulla violenza contro le donne in una comparazione tra le città di Torino, Haifa, Gaza. “Uh, molto interessante”, ma appena incomincio ad accennare a quel che ho visto durante il viaggio, il professore, calice in una mano e salatino nell’altra, dà segni di fretta, si guarda intorno verso altri colleghi e trova subito una via di fuga in qualcuno cui deve comunicare qualcosa di molto, molto importante.
Un altro amico cade nella rete, questo è stato sensibilizzato per il fatto che suo figlio negli States si è fidanzato con una ragazza palestinese “molto bella e molto intelligente” – per essere palestinese bisogna essere, però, almeno belli e intelligenti.
Il professore sottolinea la “rilevanza sociologica” del tema di cui mi sto occupando e poi, abbassando la voce, quasi bisbigliando perché altri non possano sentire: “Io adesso qui lo dico… (sospende il qui lo nego), forse non dovrei dirlo, ma Gaza non è una prigione, è un Lager”. Rispondo: proprio un Lager no… “Sì, sì, un Lager”.
Mi sorprendono le sue parole perché l’amico professore in pubblico non ha mai preso parola su questo argomento, non ha partecipato a manifestazioni di protesta contro l’occupazione israeliana e per l’applicazione del diritto internazionale, non mi risulta che abbia firmato appelli e dubito che questa sua opinione sarà espressa in questi termini coi suoi studenti. Sarebbe rimasta lì. Nel segreto della nostra conversazione privata al riparo da occhi e orecchi indiscreti.
Di ritorno da Gaza, il mio senso di impotenza, di frustrazione, di umiliazione trova un solo rimedio. Quasi per istinto vado allo scaffale dei libri e tiro giù Primo Levi, La Tregua. Ho pensato a lui spesso durante il viaggio. Mi sono chiesta più volte: ma Primo Levi che cosa avrebbe provato di fronte a tutto questo? Cosa avrebbe pensato e provato nel vedere che figli e nipoti delle vittime della Shoah stanno trovando come unica soluzione alla paura “per la loro sopravvivenza” quella di costruire enormi ghetti, separati da ciclopici muri in cui rinchiudono non solo i pochi “kamikaze” ma tutti i loro familiari, tutti coloro che appartengono alla loro… “razza”? Ma non l’avevamo cancellata questa parola? Rinchiudendo insieme anche se stessi in un altro “ghetto mentale”.
Cosa avrebbe detto quell’uomo mite, sensibile, di un’intelligenza acuta e profonda, colma di pietas? Nella sua casa teneva appesi in salotto accanto alla finestra degli uccelli da lui costruiti con una sottile struttura di fili di rame, qua e là all’incrocio tra tre o quattro fili era tesa una pellicola di un materiale plastico colorato leggero e sottile come ala di farfalla. C’era in quelle strutture una ambiguità che commuoveva. Strutture elementari, scheletri e nello stesso tempo prigioni eteree, gabbie, dove il tocco del velo di pellicola colorato costruito dall’uomo, dal chimico, era il tocco di grazia, di libertà che solo l’uomo può infondere ad uno scheletro-gabbia tanto da farlo volare. Solo oggi le so leggere. Questo maestro di vita che era riuscito a non tacere e a trasformare il dolore, l’orrore vissuto in opera d’arte oltre che in memoria, potrebbe oggi ancora insegnare altre vie: quelle del riconoscimento e della ragione dell’altro, quelle della creatività ma anche quelle del giusto sdegno.
Rimpiango la sua scomparsa perché oggi sarebbe così necessaria la sua voce viva, sottile, ma ferma e veritiera. Alla libreria dell’aeroporto Ben Gurion vedo “Se questo è un uomo” in ebraico. Le sue parole sono citate al museo della memoria Yad Vashem di Gerusalemme. Lette anche da chi pensa che la soluzione alla sopravvivenza sia quella di costruire un muro di recinzione che riduce il territorio dell’altro a una serie di “riserve” per un popolo in estinzione forzata?
Leggo La Tregua. Il suo ritorno. È un sentimento di pietà e di comprensione verso tutti in cui cerco di trovare un aiuto.
Di ritorno da Gaza, mi trovo in un’altra festicciola prenatalizia con M. e altre amiche. Sono andata alla cena con un vago senso di disagio: come potrò raccontare del viaggio a chi non vuol sapere? Racconto qualcosa prima dell’arrivo di M. Ho portato da Gerusalemme un paio di orecchini per tutte. M. ne ha scelto uno con pietre blu che le piacciono molto, dondola la testa. Un’altra amica le ha portato dall’India una collana con un ciondolo, un astuccio per contenere parole apotropaiche: forse del Corano? Dice M.: Il ciondolo porta-corano, gli orecchini palestinesi. Ma forse vi siete dimenticate che sono ebrea? E, dopo una breve pausa, aggiunge: A me sarebbero anche simpatici, se non fosse che mi ammazzano. Silenzio.
Nessuna osa commentare. Nessuna osa toccare il punto nevralgico. È Natale e anch’io rimando a un altro momento la discussione. Ma questo nostro silenzio pesa: per qualche giorno successivo non posso fare a meno di chiedermi il senso delle sue parole. “Mi ammazzano”: l’identificazione totale di tutti i palestinesi (o forse arabi? Sono gli innominati, sono “quelli”), come assassini potenziali. La totale identificazione di sé e degli ebrei come vittime o potenziali vittime. Nulla di ciò che M. dice ha a che fare con la realtà: ne è uno stravolgimento. Nessun palestinese l’ammazza e il suo rischio di essere ammazzata qui da un palestinese (o arabo?) ha una probabilità prossima allo zero assoluto. Quindi una espressione paradossale che però rovescia totalmente la realtà. La realtà è che quasi ogni giorno giovani militari israeliani entrano coi carri armati nella “prigione” attraverso le grandi porte nella muraglia, abbattono case, ammazzano qualche giovane in quanto appartenente alla “entità nemica”. M. non lo sa? O lo sa? E le mie amiche lo sanno o non lo sanno? Fingono di non sapere? Ma non è un déjà vu?
Quando ho sentito per la prima volta tre anni fa – era prima del disengagement - da parte di studenti palestinesi dell’Università di Birzeit in giro per l’Europa e l’America, definire Gaza come una “Prigione a cielo aperto”, l’espressione mi era sembrata una metafora un po’ forte. Non mi piaceva usarla.
Poi nel gennaio 2006 vidi una Gaza in festa, era il giorno delle elezioni. Tutte le città, i paesi, i quartieri della piccola striscia erano pavesate di bandiere rosse (del Fronte popolare), verdi (di Hamas) e gialle (Fatah) che sventolavano sui tetti delle case, sui pali della luce, sulle antenne della televisione sulle macchine, sui monumenti, sulle facciate dei palazzi, dovunque c’era un appiglio. Gaza City era tappezzata di manifesti colorati dei rispettivi leader in competizione e naturalmente degli eroi, Arafat e Yassin, bambini e ragazze, avvolti in fasce e bandiere distribuivano santini elettorali dei diversi partiti, correvano per le vie , ridevano, alzavano le dita a V, c’era un fermento mai visto altrove per le elezioni: le prime elezioni: una gran festa, le famiglie e gli anziani prendevano e offrivano il tè sul ciglio della strada di fronte a casa e di fronte ai seggi elettorali, scorrevano macchine con altoparlanti e musica a tutto volume. Era il giorno della speranza. L’ultimo. Giovani propagandiste di Hamas e del fronte popolare o di Fatah, con cappellini all’americana gialli verdi e rossi calati in testa sopra l’hijab, stavano fianco a fianco nelle strade davanti ai seggi o aspettavano per ore in lunghe file per andare a votare, con un attivismo inaspettato (da noi europee): le donne avevano partecipato in massa alle elezioni: finalmente avevano potuto esprimersi liberamente. Per le donne di una società senza stato dove prevale il potere patriarcale delle famiglie questo era un momento importante di partecipazione e di emancipazione.
Peccato che gli “esportatori della democrazia” oltre al metodo vogliono esportare anche i risultati dell’espressione del voto. Potete votare. Bene. Ma avete sbagliato, potete votare sì, ma avete scelto il partito sbagliato, avete scelto i “terroristi”, e ora punizione collettiva. Ora tutti dentro.
Uomini e soprattutto donne di Palestina il 25 gennaio del 2006 che hanno dato il loro voto, espressione della loro speranza, dei loro sogni (della voglia di cambiare una politica intrisa di corruzione). E subito dopo sono stati rinchiusi in una prigione, non solo, con restrizioni che non sono concepibili in nessuna prigione.
Perché una prigione a cielo aperto?
Gaza è una piccola striscia di terra di circa 50 km per 7, un pezzetto di terra minuscolo con una densità della popolazione altissima, 3.227 per km2. È circondata dal lato della terra da ciclopici muri o da filo spinato per tutta la sua estensione. Dal lato del mare i suoi pescatori possono arrivare a 6/7 km dalla riva, oltre quella distanza la guardia israeliana li respingerebbe a mitragliate.
Nessuno può uscire dalla striscia se non con permessi molto speciali. I malati per farsi curare, in teoria. Ma le decisioni sono così arbitrarie che negli ultimi due mesi sono morte 30 persone o perché non hanno avuto il permesso, o perché non l’hanno avuto in tempo. È normale che i malati aspettino per molte ore, sotto il sole, senza un riparo perché qualcuno ha deciso che quel giorno la “frontiera” è chiusa.
Nessuno studente che voglia continuare o avviare gli studi all’estero può farlo.
La frontiera non è una frontiera perché l’ingresso e l’uscita dipendono esclusivamente dall’esercito/polizia/”autorità” israeliana. I confini della striscia sono stati imposti, costruiti e ora sorvegliati da un’unica autorità, il governo israeliano.
Nessun cittadino israeliano ha il permesso di visitare Gaza, non perché glielo impediscano i palestinesi. È il governo israeliano che te lo impedisce “per proteggerti”, anche contro la tua volontà. Nessuno dei medici ebrei israeliani di “Physicians for Human Rights” che desideravano visitare Gaza, ha avuto il permesso di entrare. Nessun israeliano potrà avere dunque l’opportunità, qualora lo volesse, di vedere, di vivere l’esperienza dell’altro, di vedere la situazione in cui si vive ogni giorno a Gaza assediata.
Certo lo Stato glielo impedisce. Ma a tutte/i oggi internet, quotidiani come Haaretz, a volte anche documentari trasmessi dalla TV israelita in ore notturne, permettono di conoscere i resoconti dei pochi che riescono a entrare e vedere e anche delle associazioni che stanno dentro (come il Gaza Community Mental Health Programme).
“Sapevano “loro” […] della strage silenziosa e quotidiana, a un passo dalle loro porte? Se sì. Come potevano andare per via, tornare a casa e guardare i loro figli, varcare le soglie di una chiesa?” [o di una sinagoga o di una moschea, aggiungo] (da P. Levi, “La Tregua”).
Prigione di massima sicurezza: entrando dalla “frontiera” di Eretz dopo due anni dalle elezioni, il luogo è irriconoscibile. Una enorme costruzione moderna, come la stazione di un aeroporto è la nuova porta nella frontiera. Architettonicamente grandiosa, tutta vetrate. Ti immagini che ci sia una sala d’aspetto? La costruzione è dentro a un recinto e la gente che aspetta fuori dalla recinzione il momento dell’apertura (che in teoria ha un orario, ma in pratica è soggetta all’arbitrio quotidiano più assoluto), deve aspettare sotto il sole o al vento, una misera tettoia copre a malapena quattro panchine di cemento. Qui sotto il sole a volte aspettano anche i convalescenti di ritorno: una signora anziana con la testa fasciata da bende che spuntano sotto l’hijab, in sedia a rotelle, ha aspettato come noi per quattro ore l’apertura del cancello.
Nessuna informazione sull’apertura, nessun cartello neanche in ebraico. Un uomo apparentemente un inserviente (dalla scopa in mano) ci mette in contatto tramite il suo cellulare con l’interno. Qui si comunica quasi esclusivamente attraverso il distacco delle macchine (il contatto tra esseri umani è quasi totalmente evitato).
Ma è all’uscita da Gaza che si sperimenta l’alta tecnologia della frontiera.
Dopo aver attraversato a piedi la landa desolata terra di nessuno a fianco degli scheletri di case divelte, dopo aver percorso una passerella a zig-zag coperta da una tettoia, si arriva al muro intonacato d’azzurro e a una piccola porta: l’ingresso. Da qui in avanti è tutto un sistema meccanico ed elettronico che si prende carico di te e delle tue cose, ti passa per un “check-up” (da cui, quando uscirai, ti sentirai o dovresti sentirti come “purificato”). Mentre i bagagli vanno per la loro strada per essere vagliati, radiografati, scannerizzati (“E aperti”! tuona l’inserviente dalla giacca arancione - antiproiettile), tu aspetti davanti a una porta a vetri finché da una specie di citofono una voce ti dice, se lo capisci, di entrare. In questa seconda camera a vetri (di de-contaminazione dal tuo potenziale terrorismo) aspetti il tuo turno per entrare dentro al “tubo”. Un cilindro di vetro (certo antiproiettile): si apre una sezione del tubo, entri, prima hai letto o ti è stato detto da chi ti ha preceduto cosa devi fare: gambe divaricate, piedi esattamente sopra alle tracce disegnate sul pavimento, braccia sù tese e ben aperte, mani e dita distese. Ti sembra di essere finita in un video-game di fantascienza. Ma non è così: è la sperimentazione dei migliori sistemi di sicurezza del mondo. Poi la porticina si chiude alle tue spalle e in un ronzio elettronico ti gira tutto intorno una barra alta quanto il tubo (metaldetector o radiografatore?). Ti trovi lì in una posizione non proprio comoda, come l’uomo vitruviano di Leonardo, mentre qualcuno non si sa dove e come ti sta misurando. Fuori però c’è un cartello che dice che non ci sono pericoli per la tua salute. Si apre di fronte a te un altro pezzo del tubo e finalmente esci. O meglio credevi. Perché una voce metallica ordina qualcosa attraverso il citofono. Non capisci, ma intuisci che qualcosa è andato storto, dietro di te la porta curva del tubo si è riaperta e pensi che devi rientrare nel tubo, forse non hai tenuto le mani sollevate abbastanza a lungo. Rientri, tieni le braccia alzate al massimo con un senso di umiliazione (che si sente persino dal medico e dovunque si ricevono ordini senza spiegazioni del senso delle cose che ti vengono ordinate) ma una voce urla ancora qualcosa dal citofono (le tue 5 parole di ebraico non servono a niente), la porticina resta aperta, segno che devi uscire? Bene. Si è accesa una lucina verde e la voce metallica incomprensibile al citofono fa pensare che tu debba entrare nel prossimo stadio. Qui sei chiusa in una stretta porzione di spazio tra vetro e vetro, davanti a una porta chiusa (tu non vedi ma sei molto visibile a qualcuno che non sai dov’è, di cui senti solo la voce metallica nel citofono). Aspetti. Infine dalla voce al citofono (ora parla inglese) capisci che devi tirar fuori qualcosa che hai nelle tasche, che devi tirarlo fuori e mostralo. Metti le mano in tasca: “Monete!” gridi verso il citofono e all’esterno verso il vuoto. La voce metallica dice di mostrarle con le mani in alto e allora mentre sollevi le braccia, allora ti accorgi che alla voce metallica corrispondono delle persone, dei giovani vestiti chi in divisa chi no, si trovano in alto molto in alto sopra la tua testa, a un centinaio di metri dietro a una parete di vetro. Un ragazzo parla in un microfono e accanto ci sono altre/i tutti giovani. Monete! Agito le monetine in alto per mostrarle agli addetti della security nella torre lontana. Ce l’ho fatta. Ci saranno ancora altre barriere, domande sul passaporto, se sei stata in Libano, se hai goduto del viaggio a Gaza!!!
Ma il più è fatto, molto rapidamente: quattro ore in tutto. Le otto Donne in Nero (grazie a un permesso ottenuto dall’OMS e a un progetto di ricerca di carattere umanitario – la violenza contro le donne - condotta sotto la sua egida) ce l’hanno fatta. Sono fuori. Mi è capitato più volte nella mia vita di andare nelle prigioni di Torino per fare colloqui con detenuti studenti o per commissioni di esame e di laurea. Si, posavo la borsa in un cassetto, mi passavano attorno a volte, non sempre, un metaldetector e poi finiva lì. I sistemi di sicurezza inventati dagli israeliani certamente fanno scuola: sono fantascientifici e a volte viene da chiedere se non siano soprattutto un’arma psicologica, deterrente. Perché questo è il risultato che ottengono sulle persone: paura.
Là dove si è isolato un territorio con la sua popolazione come dentro a una prigione è normale che anche la vita quotidiana “al di fuori” sia impregnata di militarismo. In nome della sicurezza Israele è diventata una società militarizzata. Non è necessario pensare alla bomba atomica o alla ricerca sulle armi più sofisticate. Lo si vede nelle strade delle città, persino ad Haifa, la città che è sempre stata considerata la più palestinese delle città di Israele: soldati e soldatesse riempiono la città, tornano a casa nei giorni di festa sempre con a tracolla gli enormi M16 che arrivano quasi a toccar terra, portati ora con noncuranza come fossero chitarre, ora con protervia. Ragazzi ventenni armati riempiono la vista della vita quotidiana, quella in cui crescono i bambini, le nuove generazioni di israeliani. Non c’è da stupirsi se i giovani mostrano un individualismo nei comportamenti e una indifferenza gli uni verso gli altri, che noto oggi per la prima volta. Sui treni sbattono i loro zaini in mezzo al passaggio incuranti che gli altri debbano passare. Vivere fianco a fianco con una parte della popolazione chiusa in una prigione, per di più assediata per punizione collettiva, vivere nella paura costante della reazione violenta a questo ingiusto assedio, vivere nella paura legittima nei confronti di chi è stato sempre più costretto in ristrette riserve di terra circondate da poderosi recinti invalicabili… crea una società di “indifferenti”. Ed è con questo Governo che noi italiani abbiamo un trattato di collaborazione militare: andiamo a insegnare? (come il metodo montessoriano del triangolo) o andiamo ad imparare? Perché si parla tanto di sicurezza anche da noi? Sono gli immigrati i nostri “palestinesi”, potenziali assassini? Costruiremo anche noi i nostri muri? Non lo stiamo già facendo?
Ci piacciono queste frontiere? Queste prigioni? Questo dolore? Vuoi uno stato? Starai meglio con un tuo Stato? Tutto tuo? Della terra, della casa, non preoccuparti… Quale Stato? Un nuovo modello per i politologi? “il primo caso nella storia di due governi per nessuno Stato, su nessun territorio” (M.A.).
Uno? due stati? Tre? quattro? non ti importa più niente? Desideri solo uscire dall’inferno? Desideri solo più sopravvivere?
“Noi che viviamo nelle nostre tiepide case” (P. Levi) potremo dire un giorno che “non sapevamo” ?
Lo sapevi? Non lo sapevi? Ora lo sai?
Di ritorno da Auschwitz, in vista di Vienna “sfatta” e dei tedeschi piegati, Primo Levi prova non “compassione” ma “una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei viscere dell’Europa e del mondo, seme di danno futuro” (“La Tregua”).
E oggi è di fronte al danno futuro di quel seme diventato presente proviamo una pena molto simile.
Che cosa direbbe oggi Primo Levi? Ricordo che nell’agosto-settembre del 1982 quando Israele invade il Libano, di fronte ai massacri dei campi palestinesi di Sabra e Chatila, prende posizione e in una intervista di Giampaolo Pansa su “La Repubblica” del 24 settembre si rivolge agli ebrei della diaspora: “Dobbiamo soffocare gli impulsi di solidarietà emotiva con Israele per ragionare a mente fredda sugli errori dell’attuale classe dirigente israeliana”.
E nel novembre del 1976: “In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell’Uomo, e l’uguaglianza tra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi”. (Appendice a Se questo è un uomo nella ristampa Einaudi del 1989)
Franca Balsamo
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