giovedì 26 dicembre 2013

Magari fossi una candela in mezzo al buio

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
 


Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
 

Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.


Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.


Mahmoud Darwish

lunedì 23 dicembre 2013

Il Silenzio è il nostro più grande nemico

 


Rappresento una nazione che dopo 12 anni di guerra è ancora in mano a un governo fascista ed è vittima dell’occupazione delle forze della Nato. Oltre a condannare la brutalità di questa guerra, vorrei parlarvi delle conseguenze dal punto di vista dei diritti umani: della violenza patita, del saccheggio e della trasformazione subiti dal nostro Stato, diventato mafioso.
Malalai Joya 

 
 




A Milano, ospite del CISDA Onlus (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) lo scorso 11 dicembre, Malalai Joya ha incontrato all’Urban Center di Milano cittadini e autorità ed è stata subito evidente la sua vera priorità, una denuncia dell'occupazione militare del suo paese e il sostegno dato dai paesi occidentali al governo afghano - un governo fascista dominato dai signori della guerra che ha presieduto un peggioramento delle condizioni delle donne.

Mostra foto ‘spietate’ e ricorda le decine di migliaia di civili – uomini, donne e bambini – uccisi. Snocciola dati sull’Afghanistan, “al 175esimo posto nell’indice di sviluppo, ma ai primi posti per corruzione e nella top ten dei Paesi più sottosviluppati: 20 milioni su 27 di afghani vivono sotto la soglia di povertà, il 60% dei bambini è malnutrito e il sistema dell’istruzione pubblica è il sesto per corruzione nel mondo. Intanto il Paese è diventato il più grande centro di produzione di oppio mondiale, “più pericoloso di Al Quaida – denuncia -, perché distrugge la vita delle persone, con due milioni di tossicodipendenti, in maggioranza donne e bambini. E non è raro venire a sapere di donne offerte in matrimonio in cambio di oppio”.

Proprio le donne, sono tra le vittime principali del “disastro” dell’Afghanistan, “uno dei luoghi più sanguinosi al mondo per loro – denuncia Malalai -. Si parla di diritti, ma non esiste nemmeno quello alla vita: l’80% subisce violenze, il 57% dei matrimoni coinvolge ragazze minori di 16 anni, i matrimoni forzati e gli attacchi con acido stanno aumentando, mentre decine di donne ogni mese si suicidano per la disperazione delle violenze”. E, intanto, il Ministero della Giustizia sta pensando di reintrodurre la lapidazione in caso di adulterio. Tra le molte storie, Malalai racconta quella della sedicenne Shakila, “violentata e uccisa. Gli uomini coinvolti siedono in Parlamento, da dove stanno cercando di manipolare il processo e i referti attraverso la corruzione, ma la battaglia condotta insieme ad alcuni avvocati molto coraggiosi ci ha permesso di impedire che il violentatore si ricandidasse alle prossime elezioni”.


 


E se l’Afghanistan è uno dei peggiori Paesi al mondo in cui essere donna, la situazione si aggrava se si è anche giornaliste. “Come gli uomini, non hanno mani libere sui media, controllati dai proprietari che sono i signori della guerra”, racconta, citando su tutte Zakia Zaki uccisa nella sua casa proprio per la sua insistente denuncia dei ‘warlord’.
 
Io viaggio in nome del mio Paese e delle donne del mio Paese, ma vedo che in molti luoghi nel mondo non esiste una vera democrazia, per quanto riguarda i diritti delle donne – aggiunge -. E’ molto triste sapere che qui in Italia, dall’inizio dell’anno, 128 donne sono morte per violenze domestiche, è una grande tragedia e noi donne afghane la comprendiamo bene, perché abbiamo perso le nostre sorelle, le nostre madri, le persone più care. Ecco perché noi donne dovremmo essere unite, abbiamo gli stessi nemici, le stesse responsabilità da portare avanti. Dovremmo dire la verità, essere coraggiose insieme, essere più attive, lavorare nelle organizzazione per i diritti delle donne, scrivere dei diritti delle donne, essere più unite le une con le altre e sono sicura che un giorno saremo vittoriose. 

Uomini e donne. dobbiamo parlare, il silenzio è il nostro più grande nemico.

venerdì 13 dicembre 2013

La Lotta contro il razzismo e l'apartheid: Mandela e Barghouti

La libertà, caro Madiba, prevarrà certo, un giorno, e tu hai meravigliosamente contribuito a fare di questa fede una certezza. Riposa in pace e che Dio benedica la tua anima invincibile.

Marwan Barghouti


Dalla dichiarazione di Robben Island, Sudafrica: Lancio della Campagna mondiale Per la liberazione di Marwan Barghouti e tutti i prigionieri palestinesi

Marwan Barghouti ha trascorso un totale di quasi due decenni della sua vita nelle carceri israeliane, tra cui gli ultimi 11 anni. È il prigioniero politico palestinese più importante e rinomato, un simbolo della missione del popolo palestinese per la libertà, una figura che unisce e un sostenitore della pace basata sul diritto internazionale.
Tenendo presente come gli sforzi internazionali portarono alla liberazione di Nelson Mandela e di tutti i prigionieri anti-apartheid, riteniamo che la responsabilità morale giuridica e politica della comunità internazionale di assistere il popolo palestinese nella realizzazione dei loro diritti deve contribuire a garantire la libertà di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici palestinesi.
Chiediamo, quindi, e ci impegnamo ad agire per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi. Fino al loro rilascio, i prigionieri palestinesi, come sancito dal diritto internazionale umanitario e le leggi in materia di diritti umani, devono beneficiare dei loro diritti e le campagne di arresti devono cessare.
Uno dei più importanti segni della disponibilità a fare la pace con il tuo avversario è la liberazione di tutti i suoi prigionieri politici, un potente segnale di riconoscimento dei diritti di un popolo e delle sue naturali rivendicazioni della propria libertà. E’ il segnale di inizio di una nuova era, in cui la libertà aprirà la strada per la pace. Occupazione e pace sono incompatibili. L’occupazione, in tutte le sue manifestazioni, deve terminare, in modo che la libertà e la dignità possano prevalere. La libertà deve prevalere perché il conflitto cessi e perché i popoli della regione possano vivere in pace e sicurezza.
Messaggio di Marwan Barghouti dopo la morte di Mandela.
Nel corso dei miei anni di lotta, ho avuto occasione a più riprese di pensare a te, caro Nelson Mandela. E soprattutto dopo il mio arresto nel 2002. Io penso ad un uomo che ha passato 27 anni in una cella di prigione, solamente per dimostrare che la libertà abitava in lui prima di diventare una realtà di cui avrebbe potuto gioire il suo popolo. Penso alla tua capacità di sfidare l’oppressione e l’apartheid, ma anche di sfidare l’odio e di preferire la giustizia alla vendetta.
Quante volte hai dubitato del risultato di quella lotta? Quante volte ti sei domandato se la giustizia avrebbe prevalso? Quante volte ti sei chiesto se il tuo nemico avrebbe mai potuto diventare un tuo partner? Alla fine, la tua volontà si è dimostrata incrollabile, facendo diventare il tuo nome uno dei più luminosi nomi della libertà. Tu sei molto di più che una fonte di ispirazione. Tu dovevi sapere, il giorno della tua liberazione dal carcere, che eri in procinto non solo di scrivere la storia, ma di contribuire al trionfo della luce sull’oscurantismo, pur restando umile.
Ed hai portato la promessa ben oltre le frontiere del tuo paese, questa promessa, che l’oppressione e l’ingiustizia saranno sconfitte. Così hai aperto la strada alla libertà e alla pace. Dalla mia cella, io ricordo la tua ricerca quotidiana e allora qualsiasi sacrificio mi diventa sopportabile alla sola idea che il popolo palestinese potrà riacquistare la sua libertà, la sua indipendenza e la sua terra, e che questa terra potrà infine gioire della pace.
Tu sei diventato un’icona e hai fatto sì che la tua causa fosse un faro e si imponesse sulla scena internazionale. Universalismo contro isolamento. Sei diventato un simbolo al quale tutti coloro che credono nei valori universali alla base della tua lotta hanno potuto collegarsi, mobilitarsi ed agire. L’unità ha forza di legge per un popolo oppresso. La tua minuscola cella, le ore di lavoro forzato, la solitudine e le tenebre non hanno potuto impedirti di vedere l’orizzonte, né di condividere la tua visione. Il tuo paese è diventato un faro e noi, Palestinesi, spieghiamo le vele per raggiungere la sua riva.
Tu hai detto: “noi sappiamo troppo bene che la nostra libertà non è completa senza quella dei Palestinesi”. E dalla mia cella io ti dico, la nostra libertà ci appare accessibile perché voi avete raggiunto la vostra. L’apartheid non ha prevalso in Sudafrica, e l’apartheid non può prevalere in Palestina. Noi abbiamo avuto il grande onore di accogliere in Palestina, qualche mese fa, il tuo amico e compagno di lotta Ahmed Kathrada, che dalla sua cella, dove ha preso forma una parte importante della storia universale, aveva lanciato la campagna internazionale in favore della libertà dei prigionieri palestinesi; mostrando con ciò che i legami fra le nostre lotte sono eterni.
La tua capacità di essere un simbolo di unificazione e un condottiero a partire dalla tua cella di prigioniero, tenendo nelle mani il futuro del tuo popolo mentre eri derubato del tuo stesso futuro, sono segni di un grande leader, eccezionale, e di una figura davvero storica.

Io saluto il combattente per la pace, il negoziatore di pace e il costruttore di pace che tu sei, mentre sei nello stesso tempo il leader militante e l’ispiratore di una resistenza pacifica, il combattente senza tregua e l’uomo di Stato.
Tu hai consacrato la vita a far risplendere l’idea che la libertà e la dignità, la giustizia e la riconciliazione, la pace e la coesistenza possono prevalere. Adesso sono tanti quelli che nei loro discorsi onorano la tua lotta. In Palestina noi promettiamo a noi stessi di proseguire questa ricerca dei nostri valori comuni e di onorare la tua lotta non solo a parole, ma consacrando le nostre vite allo stesso scopo.
La libertà, caro Madiba, prevarrà certo, un giorno, e tu hai meravigliosamente contribuito a fare di questa fede una certezza. Riposa in pace e che Dio benedica la tua anima invincibile.

Marwan Barghouti
Prigione Hadarim, cella 28

Il Vertice della Complicità

Lungi dal conformarsi alle regole generali del diritto internazionale […l’Unione
Europea] mantiene relazioni militari, commerciali, culturali e politiche con Israele, politiche che in pratica sostengono la politica israeliana di occupazione e colonizzazione nei confronti dei palestinesi, e di conseguenza delle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele ai danni della Palestina […così] si rende essa stessa colpevole di fatti internazionalmente illegittimi che coinvolgono la sua responsabilità internazionale. 
Tribunale Russell sulla Palestina: Dalle conclusioni adottate nella sessione finale tenutasi a Bruxelles il 16 e 17 marzo 2013
 

L'Italia è il quarto partner commerciale nel mondo di Israele, il secondo in Europa, col quale ha stretto numerosi accordi di cooperazione, commercio e ricerca in vari campi tra cui esportazioni di gas israeliano, produzione di energie rinnovabili, comparto aereospaziale, sicurezza informatica, Expo 2015 di Milano, agricoltura innovativa, ricerca biomedica e compravendita di sistemi di sorveglianza di produzione israeliana (usati nella costruzione del muro dell'Apartheid e destinati ad essere installati sulle coste delle grandi isole e del meridione italiano contro i migranti). 


Il 2 dicembre si è tenuto il Vertice intergovernativo tra Italia e Israele, quarto incontro bilaterale di una serie iniziata nel 2010 per rafforzare le relazioni in campo militare, economico e culturale. Dodici accordi sono stati firmati. Fra gli accordi c'è un memorandum sull'acqua tra l'Acea e Mekorot, la compagnia israeliana che porta avanti il furto delle risorsi idriche palestinesi. 


La cooperazione militare in corso tra i due paesi riguarda la compravendita di armi, di sistemi d'arma, di sistemi di controllo e comunicazione, l'addestramento e la formazione di personale militare, e le esercitazioni congiunte: due si sono svolte a fine 2011 in Sardegna (nome in codice Vega) e nel deserto del Negev (Desert Dusk); l'ultima, (Blue Flag), si è svolta alla fine del scorso novembre vicino a Eilat nel sud di Israele. Quest'ultima esercitazione è considerata particolarmente importante da Israele per rafforzare la cooperazione con la NATO, avviata con un accordo del dicembre 2008.

Come esempio di quanto la cooperazione scientifica abbia a che fare col militare, citiamo la 4ª “Conferenza Annuale sulla Cyber Warfare - Protezione Cibernetica delle Infrastrutture Nazionali” che si è tenuta a Roma il 19 giugno 2013 presso l'Università la Sapienza. Spesso le collaborazioni tra università italiane e israeliane si risolvono in un sostegno reciproco alla ricerca in campo bellico o della sicurezza, tenuto conto che le istituzioni accademiche israeliane contribuiscono a sviluppare strumenti per il controllo dei Territori Palestinesi occupati.

Il governo italiano è quindi complice: mantiene e rafforza le sue relazioni con il governo israeliano, non tiene per niente in conto i diritti e le ragioni del popolo palestinese, e lo fa malgrado le stragi impunite come l'operazione “Piombo fuso” del 2008-2009. Così come vengono lasciate impunite le minacce alla possibilità di sopravvivenza delle donne e degli uomini palestinesi, sottoposte/i al continuo rischio di uccisione, di cattura e detenzione, di demolizione delle case, di ulteriore sottrazione di territori per espandere le colonie, di perdita delle risorse come l’acqua e gli ulivi, di trasferimento forzato, di espulsione.

Infatti, proprio nei giorni precedenti al vertice, migliaia hanno protestato in Palestina, Israele, e in molti altri paesi (anche Italia) contro Piano Prawer. Secondo il piano, le comunità beduine che vivono nel deserto del Negev (che sono cittadini israeliani) sarebbero stati forzatamente trasferiti e le loro terre sarebbero state espropriate. In preparazione per il piano, lo stato israeliano ha creato severi requisiti per il riconoscimento di villaggi beduini e per consentire la costruzione. In base a questi requisiti 35 villaggi, con alcune 70.000 persone, non vengono riconosciuti da Israele. Il fornitore di acqua israeliano israeliana non fornisce connessioni dirette per coloro che vivono in questi villaggi. Le famiglie che vivono in queste zone devono pagare per i loro tubi di acqua o di avere l'acqua consegnata in autocisterne. Essi pagano tariffe molto più elevate rispetto ebrei israeliani che vivono nelle vicinanze. Anche se il piano è stato poi sospeso, i requisiti per il riconoscimento rimangono e così fanno le difficoltà delle comunità beduine per ottenere i loro diritti fondamentali come cittadini.

Questo è un caso palese di discriminazione razziale e di pulizia etnica, ma sembra di significare poco al nostro governo. Occorre mettere fine all'impunità di Israele che continua a operare come uno Stato al di sopra di ogni legge, in violazione del diritto internazionale, dei diritti umani, delle Risoluzioni ONU.


Collaborare vuol dire diventare complice e corresponsabile dei crimini di Israele e perciò essere a propria volta colpevole. 
Non è questa la politica che noi crediamo giusta, come cittadine italiane la rifiutiamo e ancora una volta diciamo 
NON IN NOSTRO NOME

lunedì 11 novembre 2013

Con la forza della nonviolenza


A Renato Accorinti, Sindaco di Messina 

Desideriamo ringraziarla di cuore per il suo comportamento durante la celebrazione ufficiale del 4 novembre nella sua Città. 

Quel gesto di semplice e disarmante umanità, compiuto in veste di Sindaco, ci ha aperto uno spiraglio di speranza e rafforza il nostro quotidiano impegno per la pace, il disarmo, la nonviolenza; impegno che troppo spesso si scontra con la sordità della politica istituzionale. 

Le auguriamo e ci auguriamo che lei possa proseguire nel suo lavoro come Sindaco con la collaborazione e il sostegno delle sue concittadine e dei suoi concittadini; non solo per la pace e il disarmo, ma per l’ambiente e il benessere di tutte e tutti, contro le prevaricazioni e le mafie, per la formazione dei giovani e dei meno giovani verso un cambiamento profondo di mentalità e di vita. 

Con grande stima e riconoscenza, 

le “Donne in nero contro la guerra” di tutti i gruppi della rete italiana

domenica 10 novembre 2013

La Siria è anche Qui


Ho portato con me in Italia una zolletta di terra, per aver qualcosa del mio paese d’origine, ma ho portato soprattutto le storie di tante persone, che nonostante tutto non si arrendono alla logica della violenza, che sognano di tornare nelle loro case, di ricostruire una Siria senza più violenze e soprusi. 
Asmae Dachan giornalista siriana

Chiediamo degna accoglienza per profughe/i che fuggono da una guerra che è un massacro di civili. 

Sempre più arrivano nel nostro paese, bambine, bambini, donne e uomini, provenienti dall’inferno siriano, senza trovare una degna accoglienza, considerando che stanno fuggendo da una guerra interna e quindi hanno lo status di profughi con diritto di asilo e di assistenza umanitaria. 

In Siria, da uno scenario iniziale, in cui si individuava un movimento laico fatto di donne e uomini che chiedevano al regime autoritario e brutale di Assad il riconoscimento dei diritti civili e maggiore libertà, si è passati ad un altro scenario che vede quasi esclusivamente la contrapposizione dei soggetti armati, i loro coinvolgimenti nei massacri con armi chimiche senza nessuna considerazione per le sofferenze della popolazione civile. Nel frattempo sono trascorsi due anni che hanno portato all’uccisione di quasi 100.000 persone e alla fuga di più di 4.000.000 di Siriane e Siriani e 2 milioni di sfollati.

Nella nostra ricerca di contatti e relazioni significative, abbiamo ascoltato testimonianze che ci hanno fatto capire quanto sia diventata grave e senza via d’uscita la situazione in Siria. Su quel movimento laico e pacifico che manifestava nelle piazze e per le strade delle belle città della Siria si è scatenata la repressione feroce da parte del regime che ha fatto 3.000 morti in poco tempo, si è poi innestata una reazione, presto diventata armata, da parte di vari soggetti anche islamisti con apporti di Al Queda provenienti da altri paesi.

Il rumore delle armi ha coperto ogni voce di aspirazione a libertà e democrazia, mentre i giochi politici internazionali e dei paesi confinanti hanno contribuito a fomentare il conflitto armato con le loro scelte in campo, l’aiuto scellerato in armi ai contendenti e l’uso del dramma siriano per equilibri strategici e geopolitici. Intanto ad Aleppo come fu a Sarajevo la popolazione si reca al mercato malgrado i cecchini, per affermare il valore della vita e della sopravvivenza nonostante le vittime quotidiane. Anche le maestre, fra molti pericoli aprono ogni mattina la scuola, non negli edifici scolastici, ma in luoghi di fortuna, per dare una parvenza di normalità alle bambine e ai bambini traumatizzati. In realtà ci sono molte zone prive dei generi di prima necessità a partire dall’acqua, latte per i bambini, corrente elettrica. La vita degli sfollati nei campi profughi è terribile e, senza aiuti, si prevede un disastro umanitario già in parte avviato. Come in tutti i conflitti armati, l'arma dello stupro è già largamente in uso.
 
Il corpo delle donne è ancora una volta campo di battagli e bottino di guerra per infliggere castigo e offesa al nemico.

  • E’ necessaria la creazione di corridoi umanitari per portare aiuti di prima necessità in un paese dove manca tutto, dove si muore di assedio, si muore di fame sotto gli occhi indifferenti della comunità internazionale.
  • E’ necessario l’impegno dell'ONU e degli organismi internazionali, anche UE, per una soluzione negoziata del conflitto, e la cessazione della fornitura di armi ai contendenti.
  • Intanto, qui da noi, è urgente l’abolizione della famigerata legge BOSSI-FINI.

 


Esprimiamo solidarietà con la Sindaca di Lampedusa per il suo impegno e coraggio!

Le donne in nero di Bologna bi parlano con Asmae Dachan  il 15 novembre alle 18 Sala dello Zodiaco Palazzo della Provincia via Zamboni, 13

sabato 9 novembre 2013

Nazioni Unite Risoluzione 1325: Donne, Pace e Sicurezza

 



Con la nonviolenza continueremo a lottare per la smilitarizzazione sociale e contro la guerra. 



 




Il 31 ottobre 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite indicò preoccupazione per quanto riguarda il fatto che i civili, soprattutto donne e bambini, costituiscono la grande maggioranza delle vittime nei conflitti armati. 

Il carattere patriarcale e militarista della risoluzione 1325 si riflette nel fatto che si tratta quasi esclusivamente con il tema della guerra e del conflitto militare come un permanente stato di cose, naturale e inevitabile, il che è in contraddizione con il ruolo delle Nazioni Unite nel mantenere la pace e la sicurezza del mondo. 


Crediamo che con questa risoluzione, l'ONU sta cercando di glorificare la guerra e allo stesso tempo offre la guerra come alternativa per la risoluzione di conflitti e guerre, insomma, perpetuandoli. Noi affermiamo che la guerra e il militarismo che essa genera sono il principale nemico della società civile, delle donne e dei bambini. 


A seguito di cessate il fuoco in una guerra, l'ONU invia i Caschi Blu, eserciti umanitari, alle zone di conflitto. Invece di proteggere le donne, in molte parti del mondo, queste forze sottopongono le donne e le ragazze ad abusi sessuali, approfittando della prostituzione a cui si sentono condannati dalla povertà estrema in cui vivono, o approfittando della sfruttando la schiavitù sessuale di donne controllate dalle mafie, a volte violentandole. Stupri che rimangono in impunità a causa della protezione offerta ai soldati. 


La sicurezza umana va oltre l'intervento militare. Come riconosciuto dalla stessa ONU, parlando di sicurezza si deve anche parlare di sicurezza per quanto riguarda il cibo, l'ambiente, società, economia, ecc 


In ambienti familiari e di lavoro, le donne vivono anche un'esistenza condizionata dalla violenza esercitata su di loro. Una donna viene uccisa o maltrattata per non svolgere il ruolo previsto per lei. Fino a quando i governi ritengono che questo tipo di violenza appartiene al settore privato, sarà sempre presente nelle nostre società. 


La sicurezza è l'assenza di violenza contro le donne, la parità di accesso al potere (politico, economico e sociale). La lotta contro la violenza nei confronti delle donne deve essere incorporata nelle strategie di sicurezza nazionale. 

Nel 13 anniversario della Risoluzione dell'ONU 1325 riteniamo che tutte le guerre sono illegali e illeggit­time e chiedono all'ONU:

  • di considerare le guerre come una zavorra per tutto l'ecosistema e di sollecitare i governi a smilitarizzare i loro pae­si. 
  • di abolire l'immunità dei membri delle missioni di pace delle Nazioni Unite, e­ di sanzionare i crimini sessuali e di altro genere, per porre fine all'impunità.
  • di destinare le spese militari a fini sociali, all'educazione, alla sanità, alla cultura,alla cooperazione e alla sicurezza delle donne.
  • di considerare la responsabilità morale, civile e penale di chi ordina azioni militari che ottengano come risultato vittime fra i civili.
Nella legge di stabilità sono 23,6 i miliardi di euro stanziati per l’acquisto di sistemi di difesa e armamenti. Oltre a questo, la stessa legge prevede che i ricavi dalla vendita di caserme o poligoni siano utilizzati per l’acquisto di ulteriori sistemi militari. Non si potrebbe pensare di mettere a disposizione il patrimonio immobiliare militare in disuso per affrontare l'assoluta mancanza di sicurezza di coloro che non hanno casa?
 


Fuori la guerra e la violenza dalla storia e dalle nostre vite

venerdì 1 novembre 2013

Smilitarizzare la politica e le menti

In Africa, le risorse e la terra sono prese, le persone sono sfollate e migliaia lasciano la loro terra per attraversare il Mediterraneo. Invece di considerare gli sfollamenti e le spoliazioni conseguenze della guerra economica contro la terra, questi rifugiati vengono criminalizzati
Da Fare Pace con La Terra di Vandana Shiva
 


LAMPEDUSA: un mare di morti


Dal 18 ottobre è operativa la missione militare-umanitaria Mare nostrum in risposta ai naufragi di migranti nel Canale di Sicilia.

Navi da guerra, elicotteri e persino droni per “evitare nuove tragedie” secondo il governo Letta. Lo scopo della missione è ambiguo, le regole di ingaggio non sono note. 


Certo sarebbero molto più adatte le vedette della Guardia Costiera per avvistare i barconi. Questa nuova missione militare si aggiunge all'azione di Frontex, l'Agenzia europea per il controllo delle frontiere che dal 2006 quando è stata istituita al 2012 è costata 518 milioni di euro e almeno 2000 morti ogni anno, oltre ai rimpatrii forzati di migranti nell”inferno” libico.

Si aggiunge inoltre alle altre 25 missioni militari “di pace” italiane all'estero con 9153 soldati impegnati per un costo di 1,4 miliardi di euro all'anno.



La nostra esperienza ci mostra che sotto la copertura di missioni militari “umanitarie” o “di pace” si nascondono le moderne guerre (Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, ecc..)che causano morte, distruzione, povertà, profughi e maggiori investimenti nel settore militare, a scapito della spesa sociale in generale (scuola, cultura, sanità..) 

 Nessuna guerra è umanitaria

 Non in nostro nome:

  • la farsa dei funerali ad Agrigento delle vittime di Lampedusa e la cinica passerella governativa con le bare vuote e senza i superstiti, lasciati nel CIE senza poter nemmeno piangere i loro familiari, in totale disprezzo dei più elementari valori umani. 
  • la riduzione a problema di sicurezza e di emergenza del fenomeno immigrazione ormai diventato strutturale, alimentato da gravi responsabilità politiche dei paesi occidentali
La stessa logica porta anche alla criminalizzazione del disagio sociale , del dissenso politico e ogni forma di protesta. Persino il recente decreto contro il femminicidio approvato in tempi record è stato usato come copertura e ricatto per introdurre leggi speciali “anti NO TAV” sempre nell' ottica della sicurezza, dopo che per l'ennesima volta non è stata ascoltata la richiesta e la competenza femminile sul tema della violenza maschile sulle donne. 

Siamo con la Sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini che con chiarezza e dignità da tempo chiede risposte diverse per:

  • cancellare il reato di immigrazione clandestina
    cambiare la legge Bossi-Fini
    cambiare la politica d' asilo in Europa
    aprire a livello europeo un canale umanitario affinchè chi fugge da guerre e persecuzioni possa chiedere asilo senza rischiare la vita in mare. 

Firma l'Appello a questo link:
http://www.meltingpot.org/Appello-per-l-apertura-di-un-canale-umanitario-fino-all.html#.Umqqs3NH4pE ‎ 


Ogni numero delle statistiche è una persona e una vita. 
Ogni guerra e diffusione di armi lascia conseguenze tragiche. 
Non vogliamo restare indifferenti .

martedì 29 ottobre 2013

Nel silenzio della “comunità internazionale” la colonizzazione della Palestina continua



E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste, Come si mormora?


Mahmoud Darwish

Nei fatti:

  • Il governo israeliano sta attuando piani - più o meno dichiarati - di trasferimento di popolazione palestinese: i beduini del Neghev, i pastori e contadini delle colline a sud di Hebron e della Valle del Giordano, gli abitanti dei dintorni di Gerusalemme… per insediare nuove colonie ebraiche.
  •  Il Muro dell'Apartheid, i posti di blocco, le strade riservate ai coloni continuano a frammentare la presenza palestinese nei Territori Occupati
  •  La demolizione delle case dei palestinesi, lo sradicamento degli alberi, gli arresti arbitrari (anche di bambini) sono fatti quotidiani.
  •  La Striscia di Gaza continua a vivere assediata dall’esercito di Israele, che controlla lo spazio aereo, le acque territoriali e tutto il confine della Striscia
  • Circa 4 milioni di palestinesi continuano a vivere da ormai 60 anni in più di 50 Campi Profughi disseminati in tutto il medio-oriente. 

Di fronte a tutto questo il Governo italiano cosa fa? 

  • Ignorando l’occupazione, collabora! L'Italia infatti è il quarto partner commerciale di Israele. 
  •  L’Italia è diventata la porta d’ingresso principale per lo smistamento delle merci israeliane nella Comunità Europea. Molte di queste merci sono prodotte in territorio palestinese, nelle colonie, considerate illegali dalla stessa Comunità Europea. 
  •  A inizio ottobre l’attuale Ministro italiano del turismo è andato a visitare e incoraggiare la colonia illegale israeliana nel centro della città palestinese di Hebron. 
  •  Nel 2012 Finmeccanica ha concluso un contratto per vendere ad Israele 30 aerei da guerra M346. 
  • Operazioni militari congiunte Italia - Israele si svolgono abitualmente nel deserto del Neghev e in Sardegna. 

Noi non vogliamo essere complici!

Non vogliamo che il nostro paese collabori con il governo di Israele, 
che occupa illegalmente le terre palestinesi. 
Siamo solidali con la resistenza e la lotta nonviolenta della popolazione palestinese. 


martedì 22 ottobre 2013

Le Tragedie di Lampedusa

 

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Articolo 10 della Costituzione della Repubblica Italiana  

 

Il diritto di spostarsi liberamente da un paese all'altro deve essere riconosciuto come diritto umano universale, tanto più per chi fugge da guerre, persecuzioni, condizioni invivibili.

Agire per l'attuazione di questo diritto è compito di ciascuna e ciascuno di noi, ma ancora di più è responsabilità delle istituzioni che dovrebbero garantirlo. Lo hanno sottolineato i vescovi siciliani affermando che la gente di Lampedusa ha mostrato al mondo “il valore e l'efficacia dei gesti semplici e significativi del quotidiano: la vicinanza, il soccorso, il pianto, la collera, la pazienza. E nello stesso tempo ha dimostrato l'inutilità controproducente di talune risposte istituzionali che non hanno contribuito a risolvere il problema, ma anzi hanno moltiplicato il numero delle vittime”. 


Infatti nella legislazione italiana sono presenti norme particolarmente escludenti e repressive, come la legge Bossi-Fini. La sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, è molto netta su questo punto: 


“Va abrogato immediatamente il reato di immigrazione clandestina. Non c'è tempo da perdere. Per farlo non c'è bisogno di tavoli e commissioni. Ci sono già campagne avviate da tempo e discussioni approfondite. Quello che è successo è la prova ignominiosa e più evidente dell'assurdità di questa legge. Non è ammissibile che i naufraghi superstiti debbano essere incriminati e vengano trattati da criminali. L'abolizione di questo reato è un gesto dovuto. Il minimo che può fare il nostro paese”. 
Qualcosa è possibile fare. Vi invitiamo a leggere, diffondere, sottoscrivere e sostenere l'Appello per l’apertura di un canale umanitario fino all’Europa per il diritto d’asilo europeo, rivolto ai Ministri della Repubblica, ai presidenti delle Camere, alle istituzioni europee, alle organizzazioni internazionali, di cui riportiamo alcuni brani. 

L’Europa, capace di proiettare la sua sovranità fin all’interno del continente africano per esternalizzare le frontiere, finanziare centri di detenzione, pattugliare e respingere, ha invece il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far si che chi fugge dalla morte per raggiungere l’Europa, non trovi la morte nel suo cammino. 


Si tratta invece oggi di mettere al centro i diritti. Di mettere al bando la legge Bossi-Fini e aprire invece, a livello europeo, un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee senza doversi imbarcare alimentando il traffico di esseri umani e il bollettino dei naufragi. 


Trovate l'Appello col testo completo a questo link: http://www.meltingpot.org/Appello-per-l-apertura-di-un-canale-umanitario-per-il.html#.Uk2EDhAv6JQ

venerdì 18 ottobre 2013

Proterajmo Rat Iz Istorije: Fuori la Guerra dalla Storia

Questo mese, le Donne in Nero di Bergamo hanno organizzato una serie di riunioni di due delle Donne in Nero del ex-Jugoslavia, Stasa Zajovic e Rada Zarkovic.

Stasa è una delle fondatrici delle Donne in Nero di Belgrado. Ha pubblicato molti testi che riguardano la resistenza delle donne, la lotta pacifista, il femminismo e l’antimilitarismo non soltanto in Serbia.

Rada è Bosniaca di Mostar che durante la guerra ha dovuto lasciare la sua città ed è stata profuga a Belgrado. Qui ha conosciuto le Donne in Nero e si è subito impegnata diventando un'attivista molto amata. Ha lavorato molto con le profughe realizzando il bellissimo libro “Mi ricordo!”. È stata anche animatrice dei "Laboratori itineranti di pace" attraverso la Serbia. Dal 2000 è tornata in Bosnia dove, a Bratunac, ha dato vita alla cooperativa "Insieme" per la coltivazione e commercializzazione di piccoli frutti. Vive a Sarajevo, ma viaggia moltissimo perché ormai la sua cooperativa è un simbolo vivo di pace.

Il 13 Ottobre a Milano, hanno participato a un dibattito pubblico sul tema della pace in tempo della crisi economica globale. Qui riportiamo un sunto del dibattito.

Femminismo e Antimilitarismo

E' importante riuscire a connettere il militarismo con la vita delle donne, con la quotidianità. Noi, ad esempio, - dice Stasa - quando abbiamo fatto la Campagna per l'obiezione di coscienza abbiamo visto che la maggioranza di chi firmava erano donne di oltre 50 anni, perchè sono quelle che si rendono conto di più delle conseguenze del militarismo sulle loro vite di donne e madri di maschi. Hanno contattato anche donne di destra che si sono avvicinate perché anche loro hanno pagato. 


Il militarismo istituzionale è quello più facile da individuare, bisogna svelare il militarismo sociale e culturale, non è una questione di divisa, è una struttura culturale; abbiamo fatto tanti seminari su questo, con i giovani non è facile ma neanche con alcune donne. 
Ci sono alcune femministe che non vedono il male neoliberista, ma non c'è solo il conflitto fra i sessi, c'è altro, il conflitto di classe, “etnico”; c'è un sistema neoliberista che lavora contro tutti ed è molto pericoloso. Le donne che non vedono questo, tradiscono le femministe di base, si omologano alla logica della 1325, mentre noi siamo disobbedienti dappertutto. 

La Risoluzione 1325 era stata una conquista delle donne, ma ora è uno strumento militarizzato, gestito dai generali della NATO. 

Le donne giovani vanno e vengono, alcune vogliono fare carriera accademica, altre sono disperate. Anche noi abbiamo contatti e trattative continue: non sanno cosa fare, cerchiamo di contaminarle. La solidarietà tra donne è un condividere le conoscenze, generare conoscenza reciproca, imparare le une dalle altre. Molte donne accademiche stanno con noi perchè dicono che imparano. La solidarietà nasce se c'è una relazione reciproca, un rapporto simmetrico come quello che c’è tra di noi: se non c'è reciprocità, allora è carità. 




Tribunale dell'Aja

Il Tribunale Internazionale per i crimini di guerra in ex Jugoslavia dell'Aia è stato importante perché, se non ci fosse stato, nessuno sarebbe stato condannato. Un altro merito è quello di avere ottenuto il riconoscimento per la prima volta dello stupro come crimine di guerra, grazie alla pressione delle donne, per questo è importante l'internazionalismo delle donne.

Un grande errore invece dell'Aja è stato quello di avere lasciato morire Milosevic senza sentenza, sono morti entrambi, Milosevic e Tuđman, senza condanna per crimini di guerra – c’era il tempo per farlo. Questo obiettivo era importante per noi, faceva parte della nostra lotta contro l'impunità. Tutti devono essere condannati per i crimini commessi, Serbia, Croazia, ma anche Srati Uniti e la NATO; responsabilità non solo individuale, anche politica.

 A causa di questa non condanna, sono andati al potere in Serbia i politici che prima stavano con Milosevic e Seselj. Le sentenze successive poi hanno assolto in secondo grado i generali che sono stati liberati, non solo croati, come Gotovina, ma anche quelli di Kosovo e Serbia, 6 sentenze preoccupanti non solo per i Balcani, ma anche per tutto il mondo: hanno messo in libertà dei criminali, le prove c'erano ma è cambiata l'interpretazione.

Assistiamo ad una militarizzazione del diritto internazionale: d’ora in poi nessun esercito può essere condannato per crimini di guerra. E’ un cambiamento è stato molto grave perché vuol dire che non c'è nessuna responsabilità degli Stati. Possono essere condannati gli esecutori, i crimini individuali, ma non il livello di comando degli Stati. Questo è molto pericoloso perché falsifica la storia. La Serbia ha fatto una guerra di aggressione alla Bosnia, se nessuno viene condannato, chi ha fatto la guerra?

Noi sappiamo che la guerra in Bosnia non è stata una guerra civile, ma vi è stata un'aggressione, ma nessuno Stato viene condannato per questo. Ora si scarica tutto su Mladic e Karadzic, nessuna condanna per gli stati aggressori. La logica della realpolitik prevede che Serbia e Croazia non vengano condannate per poter entrare in Europa. Questo tocca non solo gli Stati balcanici ma tutto il mondo perché significa totale impunità per gli Stati.

Ma qual è il vero scopo delle guerre? Gli Stati usano la guerra per smontare lo stato sociale, ridistribuire le ricchezze, svuotare le istituzioni democratiche, poi usano la propaganda per manipolare e accreditare una versione accettabile. In realtà la struttura della guerra è collegata alla struttura globale neoliberista.

Tribunale delle Donne


Il Tribunale delle donne non vuole essere una copia del Tribunale dell'Aia. Cerchiamo modelli alternativi di giustizia. Vanno individuati nuovi crimini e vanno introdotti nel diritto internazionale. Bisogna creare spazio per testimonianze delle donne su crimini dimenticati, non riconosciuti. Le donne testimoni con cui lavoriamo hanno dato fiducia e depositato le loro testimonianze all'Aja, ma sono stanche di essere viste come vittime di guerra, dicono che per loro è importante denunciare, mostrare il continuum della violenza nel pre-guerra, nella guerra, nel post guerra e anche le condizioni economiche delle donne come conseguenza della guerra e della violenza.

C’è una connessione povertà – guerra: la struttura dei nuovi stati etnici rientra nel sistema neoliberista globalizzato. Per ora abbiamo 30 possibili testimoni. Le donne della ex Jugoslavia (7 stati) hanno piena autonomia di giudizio, non vogliono essere oggetto dei Tribunali, vogliono essere soggetti di una nuova giustizia alternativa.

Lo Stato-nazione è un crimine contro la popolazione civile. Al di là dell'ingresso o meno in Europa, gli Stati balcanici ora sono stati etnici dove la maggioranza ha benefici e potere. All’Aja non sono stati riconosciuti i crimini etnici: i cambiamenti forzati di identità, gli spostamenti forzati ecc. C’è un lavoro politico imponente da fare per definire nuovi crimini. Le donne di Srebrenica sono accanto alle madri serbe i cui figli sono stati ammazzati nelle basi militari dove era nascosto Mladic per averlo visto: il fatto di aver nascosto per 16 anni Mladic, è stato duramente pagato dalla popolazione serba.

Per quanto riguarda il luogo del Tribunale delle donne dobbiamo decidere: Sarajevo simbolo della sofferenza o Belgrado simbolo della responsabilità. Non c'è molto tempo, le testimoni vanno via, non sono rimaste in tante. Bisogna fare presto. Molte donne sono ancora mute, non osano parlare. Forse c'è un meccanismo di autodifesa, è troppo doloroso, si sceglie di non parlare. Costa molto loro mostrare l'intimità, le conseguenze sulla salute, sullo stato economico e sociale. Una donna ha detto: “Non voglio più testimoniare, non voglio rivoltare le ossa dei miei morti”.

Ci siamo anche chieste perché molte donne nostre attiviste si sottraggono alla testimonianza. Alcune hanno deciso di prendersi cura delle altre, non di loro stesse. Si deve anche considerare che sono morte molte nostre attiviste, alcuni figli sono diventati tossici. C'è stato un crollo anche nel movimento perché costa molta fatica e dolore, da anni assorbiamo il dolore degli altri. E’ un percorso impegnativo, un lavoro capillare, orizzontale, molto emozionante come femministe.

Molte donne sono nazionaliste, bisogna lavorare molto e con delicatezza. Noi pensiamo che le donne testimoni al Tribunale dovranno avere una formazione politica, facciamo circoli di discussione, queste donne partecipano, devono leggere, discutere testi e saggi. Per la formazione psicologica confidiamo su alcune attiviste che hanno un'esperienza terapeutica. In Serbia non è stato istituito neanche un Centro o una clinica per 700.000 reduci con sindrome post-traumatica, molti uomini sono diventati tossici, alcolizzati o pazzi, e questo lo pagano le donne senza contare che l'economia è in gran parte sulle loro spalle.


Per il Tribunale non abbiamo un modello da seguire, è da inventare e servono anche fondi per sostenerlo. Le Coordinatrici stanno lavorando da tempo. A differenza delle altre forme di Tribunale, vogliamo portare testimonianze, portare voci di verità su cosa fanno gli Stati, vogliamo andare oltre la giustizia ordinaria, vogliamo fare pressione sulla giustizia ordinaria perché c'è rimozione, nessuno vuole più parlare dei crimini di guerra.

E' una bella sfida.



Alternativa alla morte: amare, curare


Vogliamo partire dal nostro desiderio di libertà.

Ma ci domandiamo cosa voglia dire essere libere, come si possa cercare la strada per essere libere in un mondo strettamente interconnesso, in un mondo di guerra quale è il nostro.

C’è guerra dove vige la legge di dominio del più forte, dove non c’è riconoscimento dell’altro, anzi si guarda all’altro come nemico o come essere da schiavizzare, dove l’uso della violenza viene tollerato dalle istituzioni.

La guerra è la pratica patriarcale di affrontare i conflitti provocandone altri. La vediamo sia nell’ambito domestico, sia nel tessuto sociale delle nostre città, sia nelle relazioni fra i paesi.

Ci sentiamo responsabili della guerra che il nostro paese conduce in vari paesi del mondo, chiamandola sempre con altro nome, e che esso sostiene con la costruzione e/o commercializzazione di armi che sono strumenti di morte.

Ci riguarda quanto succede alle altre e agli altri e, in particolare, ci riguarda come donne perché quello che vediamo in azione nelle guerre attuali più che nel passato non sono solo gli interessi geopolitici delle varie potenze internazionali, ma una spinta distruttiva che si perpetua.

Quali gli effetti? le donne zittite sotto un dominio maschile violento, il loro corpo considerato bottino di guerra, vita civile impossibile e sempre precaria.

 Il desiderio di libertà è da coniugare con il senso di responsabilità. Vogliamo darci la prospettiva di produrre cambiamento. Il cambiamento è una necessità, perché, se vince la logica della guerra – sia essa militare o economica o sociale o individuale indotta dalla guerra fra sessi –, la distruzione e la morte si impongono sulla vita.

La strada che noi vediamo percorribile è quella di curare le relazioni, come premessa per la cura del mondo, è quella di “smilitarizzare le menti”, come hanno iniziato a dire le Donne in Nero di Belgrado nel pieno delle guerre balcaniche. Questo percorso ci aiuta a considerare che i nostri diritti da conquistare o da consolidare non devono finire per calpestare i diritti delle altre e degli altri.

 Negli anni abbiamo intessuto relazioni tra noi e con donne che vivono esperienze di guerra e violenza, offrendo sostegno e trovando arricchimento e conoscenza. Abbiamo denunciato, protestato contro le guerre, il militarismo nelle nostre vite, la produzione e il commercio delle armi.

Sentiamo che la nostra libertà passa per questa via. Ma ci sentiamo sconfortate quando ci vediamo sole mentre è solamente nelle relazioni intessute con altre donne che respiriamo un’altra aria e ci sentiamo fiduciose.

 Per noi Paestum è apprendere dalle pratiche di altre donne nuove indicazioni, è la possibilità che esperienze diverse si parlino e si intreccino in un percorso per realizzare condizioni di vita libere, migliori per noi qui e per tutte le altre donne.

Manu Carlon, Elisabetta Donini, Giuliana Ortolan, Barberina Piacenza (Donne in Nero) 

giovedì 10 ottobre 2013

Nessun essere umano è illegale

Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza 
Giusi Nicolini, Sindaca di Lampedusa


In fuga da guerre, conflitti etnici, violenze generalizzate, 500 profughi: uomini donne, bambini, eritrei e siriani, affrontano il mare, ammassati in una barca in mano a scafisti:I trafficanti di vite umane. Dalla sponda sud del Mediterraneo sono diretti verso il primo approdo europeo: l’isola di Lampedusa. 

Il 3 ottobre 2013 una “carretta del Mare” con 500 persone a bordo, affonda. Tanti morti annegati nei fondali di Lampedusa. I 150 sopravvissuti sono indagati per il crimine di sbarchi clandestini. 

Ennesima tragedia, la più grave per numero di morti in mare, un mare trasformatosi in un cimitero, un cimitero chiamato Mediterraneo. E' una tragedia annunciata, una strage che con grande ipocrisia la chiamano emergenza, - emergenza che dura da oltre venti anni. Sono ormai quasi 20mila le vittime del Mediterraneo, della Fortezza Europa, della logica securitaria che sta dietro la legge Bossi-Fini. 

La legge, voluta da politici e governanti, decreta il reato di “Immigrazione clandestina” con l’arresto di chi entra illegalmente e il reato di “Favoreggiamento di immigrazione clandestina” per chi si adopera per il soccorso in mare. I pescatori che soccorrono i naufraghi migranti vengono puniti con il sequestro dei pescherecci e l’arresto.

Per non parlare dei”Centri di Accoglienza “ dove vengono ammassati sine die, in condizioni disumane, i migranti in attesa di identificazione. 

Ma chi erano i 360 morti annegati ? chi sono i 150 superstiti indagati? 

Erano e sono profughi, cioè soggetti giuridici tutelati dal Convenzione di Ginevra sui Rifugiati, sottoscritto dall’Italia sin dal 1954, la quale si è impegnata al rispetto degli articoli del Trattato con il Decreto-Legge n.30 del dicembre 1989.
  • Art.33: divieto di espulsione e di respingimento:” Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere-in nessun modo- un rifugiato verso le frontiere del luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate..”.
  • Art.31: Rifugiati in situazione irregolare nel Paese d’accoglienza: “Gli Stati contraenti non applicheranno sanzioni penali, per l’ingresso o soggiorno irregolare, a quei rifugiati provenienti dai Paesi in cui la loro vita o la loro libertà era minacciata..”
I 150 superstiti dell’ultima tragedia nel mare di Lampedusa sono rifugiati eritrei e siriani, pertanto si configurano giuridicamente come Richiedenti Asilo

Come tali devono essere trattati 

E oltre le convenzioni e configurazioni giuridiche, sono essere umani, e 



Come tali devono essere trattati. 

Occorre una riflessione di ampio respiro, per costruire politiche per e non contro i migranti, a partire dall' immediata abolizione delle leggi securitarie come la Bossi Fini. 


Occorre una immediata inversione di tendenza così da infrangere il colpevole muro di silenzio che aleggia sulla questione immigrazione. Ma soprattutto occorre in questo momento affrontare l’urgenza del picco di sbarchi nell’unico modo possibile: l’apertura di uncorridoio umanitario per accogliere i profughi, salvare le loro vite e ridare loro la dignità di esseri umani.

Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente.
Giusi Nicolini, Sindaca di Lampedusa, Novembre 2012

Ma il Silenzio ha Continuato

mercoledì 9 ottobre 2013

Nessuna Guerra E' Umanitaria


Il popolo siriano sta soffrendo da più di due anni in una guerra civile che - secondo le Nazioni Unite – ha già causato centomila morti e milioni di sfollati. La situazione è drammatica e richiederebbe davvero un intervento internazionale umanitario forte.


Ma il ricorso alle armi non è la risposta! 
Nessuna guerra è umanitaria

Se guardiamo la Libia, l’Afghanistan, l’Iraq … è ormai chiaro che le guerre non risolvono i conflitti ma li esasperano

Siamo corresponsabili

Il nostro paese - che in teoria “ripudia la guerra” (art. 11 della Costituzione)
  • di fatto negli ultimi 22 anni ha partecipato attivamente ad almeno 5 guerre
  • quest’anno ha destinato almeno 5,4 miliardi all’acquisto di armi sempre più micidiali: cacciabombardieri, missili, portaerei …
  • è tra i primi dieci paesi al mondo nella produzione e commercio delle armi, grazie alla multinazionale Finmeccanica, controllata dal Governo italiano che ne è l’azionista di maggioranza. l
  • ’anno passato il governo ha autorizzato contratti di vendita di armi per 2,7 miliardi di euro. Abbiamo fornito aerei, elicotteri, navi, blindati, bombe, missili, siluri, fucili, munizioni, armi chimiche antisommossa…
  • Nonostante i limiti previsti dalla legge 185 del 1990 abbiamo rifornito anche paesi in guerra o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani (Algeria, India, Ciad, Israele, Turchia, Pakistan, Libia, Libano, Cina, Colombia…)


Non si ripudia la guerra producendo e vendendo armi

E alla Siria?
  • Fino al 2011 le forniture militari italiane al regime siriano sono state di gran lunga superiori a tutte quelle degli altri Paesi europei.
  • Ora l’Italia fa parte del gruppo intergovernativo degli «Amici della Siria» che, lo scorso giugno a Doha, si è apertamente impegnato a fornire armi ai “ribelli”.


Chiediamo invece
  • il blocco di tutti i rifornimenti di armi a tutte le parti in lotta
  • l’impegno con l’UE e con l’ONU per una soluzione negoziale e non armata del conflitto siriano
  • sostegno concreto ai civili vittime della dittatura prima e del conflitto ora, e a quanti, in Siria, senza armi, pagano con il carcere e con la vita la pace che verrà


MOBILITIAMOCI 
tutti e tutte contro le guerre, contro l’industria delle armi che le alimenta contro il militarismo che crea consenso alla logica della guerra.

martedì 24 settembre 2013

Processo di Pace?

 
Si dice che attualmente vi è  un processo di pace tra Israele e Palestina. Sono in corso trattative tra il governo israeliano e l'Autorità palestinese. 


La maggior parte di quelli che hanno seguito la serie di "processi di pace", a partire da Oslo, sono scettici, perché mentre i colloqui vanno avanti, un altro processo continua senza sosta- il processo d'espansione degli insediamenti, d'espropriazione dei palestinesi. Il processo di colonizzazione e di pulizia etnica.
 

Alle 04:30 del Lunedi il 16 settembre, l'esercito israeliano è arrivato senza preavviso, nel villaggio di Khirbet Makhoul nella Valle del Giordano settentrionale con i bulldozer militari. In breve tempo tutti gli edifici sono stati distrutti. 

Tentativi da parte della Croce Rossa di portare aiuti umanitari sono stati impediti con l'uso di granate stordenti. Il personale consolare di alcuni paesi dell'Unione Europea sono stati rimossi dalla zona in violazione della loro immunità diplomatica. Abitanti del villaggio rimangono senza riparo o mezzi di sussistenza, esposta al sole cocente e alla notte fredda. 

 

La distruzione del villaggio di Khirbet Makhool è solo l'ultima di una lunga serie di demolizioni nella Valle del Giordano, area sotto il controllo civile e militare israeliano, quasi completamente dichiarata "zona militare chiusa". Una politica implementata da tempo, che si accompagna al divieto per i residenti palestinesi di costruire qualsiasi tipo di struttura permanente: obiettivo finale è l'espansione delle colonie agricole israeliane e l'assunzione del totale controllo delle risorse naturali.

Secondo un rapporto di Human Rights Watch, nei primi otto mesi del 2013 sono già state distrutte 420 strutture e 716 persone sono state cacciate dalle loro terre e dalle loro comunità in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Dal 2009, data di insediamento del governo Netanyahu, secondo dati OCHA, le forze israeliane hanno costretto 3.799 palestinesi a lasciare le proprie case; nello stesso periodo, quasi 4.600 unità abitative per coloni sono state costruite negli insediamenti di Gerusalemme Est e Cisgiordania.

Mercoledì il 25 settembre, la Coalizione delle Donne per la Pace visiterà Khirbet Makhoul per protestare contro le demolizioni e l'abbandono dei residenti della zona. Inviamo loro il nostro affetto e la nostra solidarietà.

Nel frattempo, il governo israeliano e il segretario di Stato degli Stati Uniti stanno facendo pressione sull'Unione Europea a sospendere la decisione di porre restrizioni in materia di cooperazione con Israele, in modo che gli insediamenti e organizzazioni che traggono profitto da o che sostengono la colonizzazione della Cisgiordania non beneficiano di fondi europei . 


Per molti anni l'Unione europea non ha agito in base alle condizioni dei suoi trattati con Israele e pur condannando gli insediamenti illegali, non hanno fatto nulla per condizionare le relazioni commerciali con Israele sulla applicazione delle proprie norme. Molte volte in passato abbiamo scritto ai rappresentanti dell'UE chiedendo l'applicazione di queste norme. Ci hanno sempre risposto che"l'impegno" con Israele avrebbe migliorato la situazione - e sempre gli insediamenti si sono ampliati, e più palestinesi hanno perso la loro terra.

Ora, quando finalmente l'UE ha adottato norme per imporre il rispetto per il diritto internazionale, Israele e gli Stati Uniti affermano che le nuove restrizioni mineranno il processo di pace. A noi pare che siano la colonizzazione continua e gli altri abusi a distruggere la speranza di pace. 


Il Coordinamento Europeo dei Comitati e delle Associazioni per la Palestina ha lanciato una campagna per contrastarei tentativi di impedirel'applicazione delle nuove norme. Qualcosa che possiamo fare è di inviare lettere ministro degli esteri (ministero.affariesteri@cert.esteri.it) e ai parlamentari e senatori italiani (http://www.camera.it/leg17/28 )



Clicca qui per una copia della lettera

sabato 21 settembre 2013

Risoluzione del XVI Incontro Internazionale delle Donne in Nero Montevideo



Risoluzione del XVI Incontro Internazionale delle Donne in Nero Montevideo, Uruguay, 19/8/2013- 24/8/2013 

Delegazioni di Argentina, Armenia, Belgio, Cile, Colombia, Congo, Guatemala, India, Israele, Italia, Palestina, Serbia, Spagna, Uruguay.

  • Siamo un movimento internazionale di attiviste femministe che si confrontano con diverse situazioni di oppressione. 

  • Rifiutiamo i conflitti armati e le guerre che hanno luogo nel mondo ad opera degli eserciti dei nostri paesi.

  • Rifiutiamo anche le cosiddette guerre “umanitarie” e le guerre preventive, la violenza in situazione di post-conflitto in cui si continua la guerra con strumenti diversi. Il perpetuarsi del potere dei dittatori e dei criminali attraverso artifici legali, l'immunità per gli attori armati e l'impunità per i criminali di guerra. 

  • Rifiutiamo anche le guerre sociali generate dall'economia neoliberista che stanno danneggiando il mondo intero soprattutto la gente povera. 

  • Ci opponiamo al commercio delle armi la cui produzione è una delle cause della proliferazione delle guerre. Proponiamo che le industrie belliche trasformino la loro produzione spostandola su prodotti non letali 
  • Rifiutiamo anche la continuità della violenza contro le donne in casa, nelle strade, nei luoghi di lavoro. 


Tutte queste forme di violenza sono generate dal patriarcato che si nutre e si sostenta attraverso le guerre, la violenza e l'ingiustizia e che non ha mai rinunciato a soluzioni belliciste.

In tutte queste situazioni si usa una violenza strutturale e sistematica contro le donne, il controllo sociale viene assicurato attraverso il controllo dei corpi delle donne.
Il nostro movimento femminista e antimilitarista utilizza forme di lotta nonviolente e fa le seguenti proposte:

  1. Azione globale delle Donne in nero per l'abolizione dell'immunità per i membri delle “missioni di pace” delle Nazioni Unite, i caschi blu.

    E' comprovato che in molte zone di guerra i caschi blu siano stati coinvolti in reati di tipo sessuale contro la popolazione civile come in Congo, Bosnia, Haiti, ecc. A partire dalla ultima settimana di ottobre iniziare le campagne di mobilitazione.
  2. Abolire l'impunità per i perpetratori di crimini di guerra compiuti durante interventi militari, guerre umanitarie, dittature e guerre sociali contro i poveri, per impedire che tornino al potere come sta succedendo in molti luoghi.

    Per questo esigiamo che il sistema giuridico si attivi contro l'impunità. Quindi ci congratuliamo con il Tribunale del Guatemala per la condanna per genocidio del dittatore Efrain Rios Montt, stabilendo un precedente unico nel mondo

    Per questo lavoriamo e continueremo a lavorare con modelli di giustizia che partono da una visione femminista come i tribunali e le corti delle donne, le commissioni di verità, giustizia e riparazione, ecc

    Proponiamo di collocare l'inizio di questa azione contro l'impunità il 24 di maggio 2014, giornata internazionale per la pace e il disarmo.
  3. I nostri gruppi di Donne in Nero faranno vigil per ricordare la Nakba palestinese del 1948. Appoggiamo e ci impegniamo con il movimento BDS “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro lo stato di Israele e la sua economia di guerra e la sua politica di occupazione. 
Riaffermiamo la nostra autonomia e la libertà di decidere sulle nostre vite e i nostri corpi e territori in termini di diritti sessuali e e riproduttivi.

Continueremo ad appoggiare le iniziative di pace che i diversi gruppi di Donne in Nero e affini organizzano in conformità con i propri contesti sociopolitici e rispettando l'autonomia di ciascun gruppo che fa parte della rete.

Montevideo 24 agosto 2013

Da Montevideo




Relato dell'incontro internazionale delle Donne in Nero a Montevideo, Uruguay, da Patricia Tough, donna in nero di Bologna

 

Care tutte,

 Questo incontro è stato molto movimentato, incalzante e un po' confuso anche per i continui spostamenti da un luogo all'altro per le varie attività organizzate e una certa mancanza di organizzazione in particolare nella distribuzione degli incarichi da parte delle organizzatrici il tutto in una atmosfera di grande condivisione, affetto e allegria.


 Le plenarie e i workshop si sono susseguiti e tutte le pause sono state riempite da incontri in café, ristoranti e case (quella di Ana Valdès, perlopiù) in cui la discussione continuava per cui non c'è stato un momento di tregua se non negli ultimi due giorni dopo la chiusura dell'incontro che però abbiamo usato in parte per riscrivere il documento finale dopo le modifiche apportate in plenaria il giorno precedente e in parte con le Mujeres de negro Uruguay e le Women in black inglesi e statunitensi, la belga, e poi Taghrid e Jerstin, rispettivamente palestinese e israeliana che hanno voluto come noi trascorrerli conoscendo la città e partecipando a iniziative organizzate a margine dell'incontro.

 
E' apparsa immediatamente chiara la diversità dei temi posti al centro del loro impegno da parte delle Mujeres de negro dell'Uruguay cioè finora prevalentemente la violenza domestica, il diritto all'aborto, il femminicidio che del resto erano i temi su cui le donne di quel paese sentivano maggiormente bisogno di attivarsi.

 

In questo senso le Mujeres de negro hanno lavorato molto bene e creato un'attenzione da parte delle istituzioni locali e del governo. Sono state capaci anche di promuovere manifestazioni molto partecipate di donne che hanno accettato di usare il simbolico delle Donne in nero (il nero e il silenzio) in modo “disciplinato” cioè non come accade alle volte nelle nostre uscite dove fatichiamo ad avere una uniformità su questi aspetti. Hanno posto il tema del destino degli orfani/e del femminicidio ottenendo una legge in proposito che garantisce aiuto socioeconomico a questi bambini così colpiti nei primi anni di vita.

 Ana Valdès, tornata a vivere in Uruguay dopo un lungo esilio in Svezia, ha portato nel gruppo i temi del militarismo, della memoria di quanto accaduto nella dittatura, della necessità di verità, giustizia e riparazione anche se con una certa difficoltà a trovare una consonanza. Le/i torturate/i incontrano per la strada i loro aguzzini e “sono loro”, le vittime, a dover abbassare lo sguardo” come dice Ana. L'uscita dalla dittatura è stata infatti patteggiata nel 1985 fra militari e tupamaros con un accordo che ha portato alla “ley de caducidad” che ha voluto dire “impunità” cioè una pietra tombale su quanto accaduto.



 Su nostra richiesta Ana, rimasta prigioniera della dittatura per 4 anni, ha organizzato un incontro con altre due exprigioniere, Anahit, di origine armena, rimasta in carcere per 11 anni e Elena per 4. Abbiamo pensato di fare loro una intervista in cui abbiamo chiesto della loro esperienza, come era nato il loro impegno politico, come avevano vissuto la reclusione, l'essere in balia totale dei torturatori ma anche la solidarietà, la capacità di continuare a discutere e a progettare il futuro anche se in cattività e continuo controllo da parte dei militari, anche lo stupore di fronte alle condanne loro comminate, alla estrema violenza della dittatura dentro e fuori dalle carceri, la gioventù e l'entusiasmo per un progetto di cambiamento che attraversava tutta America Latina e poi la delusione per l'esclusione dalle decisioni, il bisogno di verità e giustizia negato. In ogni caso il tema delle dittature è entrato in maniera prepotente nell'incontro e nei temi delle DIN con la presenza di Argentina, Cile, Guatemala, Uruguay.

 L'Uruguay è un paese laico, la legge sul divorzio è del 1907 e non c'è religione di stato, non si insegna religione nelle scuole e queste sono pubbliche e obbligatorie per tutte/i oltre che gratuite fino all'università, il secolarismo diffuso si sente chiaramente nell'atmosfera che si respira in questo paese dove però una legge sul diritto all'aborto è stata ottenuta solo da poco tempo ed è caratterizzata da regolamenti che mostrano una mancata rinuncia al controllo sul corpo delle donne (e quindi sulla natalità e ai fini del controllo sociale) a dimostrazione che il patriarcato anche nel secolarismo limita, se può, le libertà femminili ma le donne non si perdono d'animo e hanno intenzione di far cambiare la legge. La gioventù è istruita c'è molto interesse per teatro, opera, musica classica, la legge permette i matrimoni omosessuali, la legalizzazione delle droghe leggere sotto controllo dello stato, il tutto molto recente. Nel centro di Montevideo, come a Bologna esiste la Zona della diversità sessuale con un edificio affidato alle organizzazioni gay e lesbiche, transgender e in generale lgbt.


 Le donne partecipano attivamente alla politica, Montevideo ha una sindaca che ha proclamato Montevideo “città della pace” per tutta la durata del nostro incontro (6 gg.) e ha voluto che l'inaugurazione assumesse un carattere ufficiale, Durante questo evento abbastanza partecipato, Stasa ha preteso e ottenuto che venisse tolta la bandiera serba che ingenuamente era stata messa, insieme a quelle riferite alle altre delegazioni presenti (certo questo ha messo in luce una mancanza di consapevolezza del nostro sentire sulle questioni che riguardano nazioni/nazionalismo però hanno capito subito di aver fatto un errore). Il governo ha definito il nostro incontro di “interesse nazionale”.

Montevideo è una città politicizzata, in vari luoghi della città si propagandano in vari modi le ultime leggi sui diritti civili anche con proiezioni sulle pareti dei palazzi, Insomma questo incontro è stato immerso nella realtà locale, in modo un po' inusitato e anche questo sta a testimoniare modalità e approcci diversi fra le varie realtà in cui sono presenti nel mondo le donne in nero, si capiva anche che in determinati ambienti c'era interesse rispetto alla nostra realtà di donne in nero.

 Da quello che abbiamo capito ci sono state diverse realtà che hanno chiesto di incontrarci, ad esempio abbiamo incontrato una delle 19 Comuna Mujer, luoghi gestiti da donne, dipendenti e volontarie, che offrono accoglienza e consulenza legale e psicologica alle donne che vivono nel dipartimento cui afferisce ogni Comuna (un “consultorio” per più quartieri). Il servizio è molto interessante e prevede anche attività di formazione e empowerment, hanno anche ricevuto la visita di Rigoberta Menchù cosa di cui sono molto orgogliose. Per quanto riguarda i casi di violenza in famiglia per cui la donna sia costretta ad allontanarsi dalla casa, il servizio/rifugio viene fornito direttamente dal governo attraverso “hogares” temporanei e segreti. 

Abbiamo avuto la presenza di un gruppo di attiviste cilene di cui forse vi avevo già accennato, erano otto (una è arrivata da solo in macchina attraversando la Cordigliera delle Ande e hanno trovato molto stimolante la nostra proposta, più avanzata rispetto ai soli temi pur importantissimi della violenza sulle donne (femminicidio) dell'autonomia del corpo delle donne (depenalizzazione aborto -attuato con metodo farmacologico quindi a casa-; in Cile c'è la legge più restrittiva in tal senso), e in generale dei diritti sessuali e riproduttivi.

 Loro sembrano molto interessate a sviluppare anche i nostri temi a partire dalla lotta contro la guerra come prodotto del patriarcato, e la violenza sistematica sulle donne nella guerra oltre che contro il militarismo che in particolare in Cile è un tema importante da da porre nell'agenda femminista. Ci hanno ringraziato per il valore che abbiamo dato loro e per aver aperto loro un nuovo orizzonte di impegno.

 C'era una ragazza che rappresentava le donne in nero Armenia che ha portato video

sulle mobilitazioni che fanno nel loro paese, molto simboliche ma anche molto giovani non mancano infatti performance con musica e ballo.

Vorrei descrivervi anche le giornate dell'incontro per ora vi dico come si è svolta la prima giornata cioè il 19/8/2003 Jenny Escobar che alcune di noi conoscono ha introdotto l'incontro invitando i vari gruppi a presentarsi illustrando i temi prevalenti del loro impegno e le pratiche politiche.

Tutti i gruppi hanno portato il loro contributo che è stato sempre permeato anche dalla voglia di condividere, dell'importanza della rete e della forza che può dare a tutte noi, dell'importanza di incontrarci, di abbracciarci, parlarci, darci valore. In pomeriggio siamo andate all'inaugurazione ufficiale di cui ho già parlato in parte. Ha avuto luogo nel municipio dove siamo intervenute come delegazioni presenti per testimoniare lo sviluppo della nostra rete a partire dal primo gruppo in Israele poi Italia, Serbia, Spagna, Colombia.