martedì 13 marzo 2012

Le urla che si potrebbero sentire

Donne iraniane, attiviste per la parità di diritti, dicono no alla guerra




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La giornata internazionale delle donne, Il gruppo di donne iraniane Change for Equality ha publicato questa dichiarazione:

La guerra non avviene nel corso di una giornata. Non c'è bisogno cha la guerra cade sulle nostre città con le bombe. La stessa ombra della guerra è spaventosa. Anche la possibilità di una guerra cambia la vita delle donne. Ogni giorno che passiamo in guerra o in condizioni di guerra, viene riempito con la paura della morte di tutte le nostre conquiste, che sono maturate in anni di lotta. La guerra per noi, significa violenza distruttiva commessa contro donne e bambini. Ciò significa repressioni più gravi. Significa far tacere le nostre richieste e proteste civili e ... ancora i nostri corpi sono coperti dal polvere della guerra, otto anni con l'Iraq, e il nostro paese è ancora una volta di fronte alla minaccia di guerra.


La guerra non è solo bombe e la distruzione delle nostre case. Anche prima di imbarcarsi in una guerra, sembra che le vite delle donne sono già diventate più difficili. La guerra ha concentrato il suo sguardo sulle donne e si avvicina, passo dopo passo.

Non vogliamo diventare le vittime silenziose di questo mostro. L'8 marzo 2012, mentre viene negata la possibilità di festeggiare la giornata o esprimere le nostre richieste per le strade, abbiamo colto questa opportunità per dire che siamo contrarie alla guerra e ognuno di questi cortometraggi esprime le nostre ragioni di tale opposizione. Unitevi a noi, in modo che forse insieme possiamo diventare una voce forte contro coloro che con il minimo di scuse e con un sorriso sulle labbra, danno il benvenuto alla possibilità della guerra.

giovedì 8 marzo 2012

Liberta' per Hana al-Shalabi


Hana al-Shalabi è una donna di 29 anni da un villaggio vicino a Jenin nella Cisgiordania occupata. La notte del 16 febbraio, circa 50 soldati israeliani con cani hanno fatto irruzione ​​nella casa della sua famiglia. Hana è stata messa in detenzione amministrativa per sei mesi . Incominciò uno sciopero della fame subito dopo il proprio arresto ed
è entrata nel 22esimo giorno senza cibo la giornata della donna. E' attualmente detenuta nella Prigione di Hasharon.

La detenzione amministrativa è detenzione senza accusa né processo che è autorizzata con provvedimento amministrativo, piuttosto che per decreto giudiziario. Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa può essere utilizzato solo nei casi più eccezionali per prevenire un pericolo che non può essere contrastato con mezzi meno nocivi.

L'uso di detenzione amministrativa da parte di Israele viola apertamente tali restrizioni. I detenuti sono negati la possibilità di montare una difesa adeguata. Nel corso degli anni, Israele ha usato la detenzione amministrativa contro migliaia di palestinesi per periodi di tempo prolungati, senza processarli, senza informarli delle accuse contro di loro, e senza permettergli di studiare le prove.

Per Hana non è la prima esperienza della detenzione amministrativa. E'stata arrestata il 14/09/2009 e, da allora, le autorità israeliane hanno proceduto al solito modo. Puntualmente, alla scadenza dei sei mesi, hanno esteso la detenzione. Hana era tra gli oltre 1.000 prigionieri palestinesi liberati nel mese di ottobre durante uno scambio fra prigionieri palestinesi per il soldato israeliano Gilad Shalit. Meno di 4 mesi dopo, è stata nuovamente arrestata e detenuta senza processo.

Potete inviare lettere al giudice militare israeliano, Dani Afroni, chiedendo la liberazione di Hana (clicca qui per inviare la lettera).

Qui sotto la versione italiana della lettera.


Scrivo oggi per chiedere la liberazione immediata e incondizionata della prigioniera politica palestinese Hana al-Shalabi, che è stata in sciopero della fame dal momento del suo nuovo arresto il 16 febbraio. Hana al-Shalabi è stata rilasciata da un carcere israeliano nel mese di ottobre 2011 in un accordo di scambio di prigionieri. Prima della sua liberazione, era stata detenuta per più di 30 mesi. Durante questo periodo, non è mai stata accusata di alcun crimine, né processata; ha trascorso quasi tre anni in detenzione amministrativa arbitraria.

Dopo solo quattro mesi, Hana è stata nuovamente arrestata - e ancora una volta, non è stata accusata di alcun crimine. Ancora una volta, è stata condannata a sei mesi aggiuntivi di detenzione amministrativa - rinnovabile a tempo indeterminato.

E 'chiaro che mantenere la detenzione di Hana è stato sempre l'intenzione. Il suo nuovo arresto cosi' presto dopo il rilascio, annulla l'accordo di scambio di prigionieri cosi' come viola i suoi diritti.

Proprio come la vita di Khader Adnan è stato reso visibile al mondo attraverso il suo coraggio, la vita Hana al-Shalabi è preziosa, e la gente di tutto il mondo hanno gli occhi sul suo caso. Il governo di Israele è pienamente responsabile per la sua salute e la sua vita.

La detenzione amministrativa viola il diritto a un processo equo, riconosciuto nel Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici. Si tratta di una pratica che viene utilizzata per mettere a tacere i palestinesi senza mai esporre la realtà di tali azioni alla luce del giorno.

Inoltre, chiedo la fine non solo dell'uso della detenzione amministrativa, ma anche dell'uso di isolamento, di "prove segrete" e della tortura.

Lo sciopero della fame di Hana al-Shalabi è una rivendicazione di dignità, di giustizia e di libertà. Hana deve essere subito rilasciata.





Da una sponda all’altra: vite che contano

Native e migranti per pace e diritti

La guerra è entrata nel quotidiano, eppure bisogna continuare a pensare alla pace, e da donne».
Virginia Woolf


Noi Donne in Nero dedichiamo la Giornata internazionale della donna a tutte le donne che agiscono per la democrazia e per la libertà-liberazione di tutte, di tutti. La dedichiamo, in particolare, alle donne protagoniste delle “primavere arabe” del 2011. Siamo convinte che nessuna primavera potrà fiorire nella luce estiva (né per loro, né per il mondo intero) senza i sogni e i desideri delle bambine e delle donne che, come noi, cercano di abitare il mondo con amore, giustizia e solidarietà, attraverso confini e conflitti, con la forza della tenerezza e della non violenza.

Nei mesi successivi alla rivolta tunisina dei gelsomini (14 gennaio 2011), alle manifestazioni in Libia represse violentemente e alla guerra (a cui anche l’Italia ha partecipato nonostante l’articolo 11 della nostra Costituzione), ci sono stati centinaia di scomparsi e di morti per i naufragi nel mare nostrum.

Molti giovani sono partiti verso l'Europa rivendicando la loro libertà di movimento. Di oltre 500 di loro non ci sono più notizie. Sono morti? Sono nei Centri di Identificazione e di Espulsione, sono nelle carceri italiane?


Dei loro nomi non sappiamo, delle loro storie nemmeno; conosciamo il mare che li porta con sé attorno ai luoghi da noi abitati. Ognuno di loro − donne, uomini, bambine e bambini − ha avuto una donna che gli ha dato la vita e adesso forse ha una striscia d’acqua a scarnificarne il corpo e a trasportarne le ossa.

Il desiderio delle madri, delle sorelle, delle mogli, delle fidanzate, delle amiche, dei familiari, degli amici di conoscere la sorte delle persone care scomparse è talmente radicale da superare confini e barriere e giungere sino a noi. Porta con sé il desiderio di libertà che quegli uomini e quelle donne hanno agito nell'attraversamento del Mediterraneo.

Oggi, nella Giornata internazionale della donna, noi Donne in nero vogliamo dare voce alle donne che in Africa, in Italia, in Europa, in America, nel mondo reagiscono al dolore chiedendo che nessuno, nessuna, possa scomparire, in mare o nei centri di identificazione ed espulsione o nelle prigioni o inghiottiti dall’indifferenza e dall’oblio.

Proprio come le donne messicane di Nuestras hijas de regresso a casa e come le Madres de Plaza de Mayo, siamo convinte che le figlie e i figli scomparsi «sono vivi per sempre. Desaparecidos a causa del terrore e della morte, desaparecidos a causa della menzogna e della complicità. Vivi nella vittoria dei sogni. Questi sogni che come la luce della meraviglia annunciano il giorno».

Ignorate dalle istituzioni tunisine, italiane ed europee, le famiglie delle scomparse e degli scomparsi partiti dalla Tunisia, chiedono che le impronte, usate per schedare le persone e ostacolarne la libertà di movimento, vengano utilizzate in questo caso per sapere se e dove siano arrivati i loro figli e le loro figlie. Donne e uomini in Tunisia manifestano per ottenere che il ministro degli Esteri tunisino chieda al governo italiano una verifica sulle impronte. Noi, qui in Italia − insieme al collettivo femminista di donne native Le2511 (http://leventicinqueundici.noblogs.org, venticinquenovembre@gmail.com), e ad un gruppo di donne tunisine in Italia − chiediamo che Anna Maria Cancellieri, ministra degli Interni italiana raccolga la loro richiesta.

Noi Donne in nero manifestiamo in silenzio per far tacere il silenzio del mare e denunciare le responsabilità dei nostri governi (attuale e precedenti) sulle politiche di respingimento. I respingimenti che l’Italia da anni attua e che noi da anni denunciamo come inumani e ingiusti sono stati recentemente condannati anche dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. La Corte ha dichiarato che l'Italia nel caso Hirsi (200 persone respinte verso la Libia nel 2009) non ha rispettato l'articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura. Ha stabilito che l'Italia ha violato il divieto alle espulsioni collettive (è la seconda volta in sessanta anni che la Corte condanna per questo uno stato) e non ha rispettato il diritto delle vittime (24 persone, 11 somale e 13 eritree, rintracciate in Libia e assistite dal Consiglio Italiano per i Rifugiati) di fare ricorso presso i tribunali italiani.

Oggi 8 marzo vogliamo, dare simbolicamente, almeno per un giorno, cittadinanza in questo Paese che le ha respinte e le ha costrette ad un viaggio forse mortale a quelle persone che non incontreremo mai e che sarebbero potute diventare nostre concittadine.

Continueremo a chiedere che venga fermata la macchina dei respingimenti verso il Nord Africa perché vogliamo vivere in un paese accogliente. Vogliamo dire che c'è un'altra Italia che ci siamo anche noi: radicate nelle piazze, con le teste vicine al cielo a costruire un mondo libero da guerre, violenze e povertà.

lunedì 5 marzo 2012

Denunciamo le Minacce Contro le Donne della Ruta Pacifica


Il 28 febbraio, la Ruta Pacifica de Las Mujeres di Colombia ha ricevuto un messaggio proclamando una condanna a morte per coloro che continuano a insistere sulla restituzione delle terre agli sfollati dalla guerra.

La Ruta Pacifica ha emesso il seguente comunicato che denuncia le minacce.
La Ruta Pacífica de las Mujeres, respinge ed esige indagini sulle minacce di cui è stata nuovamente oggetto da parte del gruppo “Águilas Negras – Bloque Capital D.C”, minacce ricevute direttamente nella nostra sede, in una busta aperta e non affrancata, martedì 28 febbraio 2012.

Sembra un’ironia che, quasi nello stesso tempo in cui si stava consegnando il rapporto dell’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani sulla situazione dei diritti umani in Colombia, dove si segnala che “… ha osservato che il rischio e la vulnerabilità delle leader e dei leader nei processi di restituzione di terre sono estremamente alti, tenuto conto degli interessi criminali per le proprietà oggetto di restituzione…”, stiamo ricevendo queste minacce, dove oltre alla Ruta compaiono organizzazioni femministe come la Casa de la Mujer, Sisma e altre organizzazioni miste; inoltre vengono minacciate direttamente 15 persone, tra le quali ci sono 12 donne e una di loro è la Delegata per i diritti dell’infanzia, la gioventù e le donne della Defensoría del Pueblo.

Il volantino è chiaramente rivolto a donne che difendono i diritti umani che stanno lavorando sulla restituzione delle terre, vi si legge infatti: “… se non smettete di rompere con il tema del recupero delle terre, per quanto siate protetti, sarete assassinati da noi e vi diamo 30 giorni per abbandonare la città”.

Ci uniamo all’appello dell’Ufficio dell’Alto Commissario dei D.U. in Colombia ribadendo “la necessità di adottare misure integrali di protezione che includano solide analisi dei rischi, in cui possano incorrere le vittime…” e inoltre che “le misure di protezione si dovrebbero migliorare, per es., includendo un approccio diverso e di genere, come anche rafforzando le istituzioni locali competenti”.

Facciamo un appello alle organizzazioni che difendono i diritti umani, ai partiti politici, alla comunità internazionale e ai media regionali, nazionale e internazionali affinché la pressione sociale e politica contribuisca a evidenziare, respingere e sanzionare questi fatti; e siano garantiti per tutti e tutte il rispetto dei diritti alla Verità, alla Giustizia e al Risarcimento di fronte alle violenze storiche di cui sono state vittime le donne in Colombia.


Il gruppo Aquile Nere è una ri-formazione del gruppo paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), suppostamente smobilitato nell'amnistia scandalosa goduta da gruppi paramilitari, a sostegno della legge chiamato erroneamente "Giustizia e Pace", adottata nel 2005.

Si deve prendere sul serio minacce da un tale gruppo e chiediamo ai nostri rappresentanti diplomatici in Colombia di attivarsi immediatamente perché le autorità Colombiane agiscano con determinazione contro le sedicenti “Aquile Nere”, non solo per evitare che quanto minacciato accada, come si è già verificato molte volte con le donne leader dei movimenti sociali, ma per far sì che si perseguano con verità, giustizia e riparazione questi crimini inaccettabili.

Non rinunciamo alla nostra aspirazione a vivere in un mondo libero dalla guerra, la paura e la violenza

Clicca qui per leggere le lettere mandate dalle Donne in Nero Italiane all'ambasciatore italiano in Colombia e all'ambasciatore colombiano in Italia


sabato 3 marzo 2012

Cento Piazze Contro Gli F-35


Sabato scorso in oltre 100 città italiane, ci sono state proteste contro i cacciabombardieri F35 e la scelta del governo italiano di spendere oltre 10 miliardi per produrne ed acquistarne "solo" 90 esemplari.

E' vero che nel piano d'acquisto originale il numero di F-35 era 131.
Ma 90 velivoli di guerra sembrano pochi per un paese che ripudia la guerra?

Saranno un sacco di soldi spesi male, perché anche un solo cacciabombardiere è di troppo: il suo costo equivale a 180 asili nido.

E con l'ovvia crescita del costo per singolo aereo anche questo taglio ci potrebbe fare spendere almeno 12 miliardi -per non parlare delle spese di operazione e manutenzione.

Non vorremmo fare la fine della Grecia. Come scrive il “Corriere della sera” in un articolo del 13 febbraio 2012,

“I greci sono alla fame, ma hanno gli arsenali bellici pieni. E continuano a comprare armi. Quest'anno bruceranno il tre per cento del Pil (prodotto interno lordo) in spese militari. Ma cosa spinge Atene a sperperare montagne di soldi? La paura dei turchi? No, è l'ingordigia della Merkel e di Sarkozy. I due leader europei mettono da mesi il governo greco con le spalle al muro: se volete gli aiuti, se volete rimanere nell'euro, dovete comprare i nostri carri armati e le nostre belle navi da guerra. Le pressioni di Berlino sul governo di Atene per vendere armi sono state denunciate nei giorni scorsi da una stampa tedesca allibita per il cinismo della Merkel, che impone tagli e sacrifici ai cittadini ellenici e poi pretende di favorire l'industria bellica della Germania.”


Per quanto riguarda l'Italia, ci domandiamo:

Il progetto F-35 creerà nuovi posti di lavoro?

I posti di lavoro generati da tale impresa sono pochi, molti di meno di quelli promessi tempo fa, e serviranno solo a ridurre il calo occupazionale che altrimenti avrebbe sofferto Alenia, società del gruppo Finmeccanica: quindi non sono dei veri e propri “nuovi” posti di lavoro. Questo è stato riconosciuto non da pacifisti e da antimilitaristi, ma addirittura dal generale Debertolis (il direttore nazionale degli armamenti), come ha riportato “Il Sole 24 ORE” in un articolo dell'8 febbraio 2012.

A che cosa servono? a quali guerre il nostro paese si sta preparando? e chi dovremmo bombardare?

Gli F-35 serviranno per partecipare, con USA e altri paesi alleati, a imprese militari. Si tratta di guerre (chiamando le cose con il loro vero nome). Affermazioni in questo senso, seppure con l'uso di un linguaggio più diplomatico, sono state fatte addirittura dall'attuale ministro della difesa, l'ammiraglio Di Paola.

La Costituzione vieta all’Italia di fare guerre; ma con la scusa dell’intervento umanitario, o della appartenenza alla NATO, o della difesa dei “nostri interessi”… negli ultimi 20 anni abbiamo partecipato a 5 guerre - senza risolvere nessuna delle situazioni di ingiustizia invocate come pretesto - e provocando morti e distruzioni con le nostre armi.


Come cittadine abbiamo diritto all’istruzione, al lavoro, alla pensione ed alla sanita’ … possiamo fare a meno di 131 (e anche di 90!) cacciabombardieri F-35 JSF!