venerdì 18 ottobre 2013

Alternativa alla morte: amare, curare


Vogliamo partire dal nostro desiderio di libertà.

Ma ci domandiamo cosa voglia dire essere libere, come si possa cercare la strada per essere libere in un mondo strettamente interconnesso, in un mondo di guerra quale è il nostro.

C’è guerra dove vige la legge di dominio del più forte, dove non c’è riconoscimento dell’altro, anzi si guarda all’altro come nemico o come essere da schiavizzare, dove l’uso della violenza viene tollerato dalle istituzioni.

La guerra è la pratica patriarcale di affrontare i conflitti provocandone altri. La vediamo sia nell’ambito domestico, sia nel tessuto sociale delle nostre città, sia nelle relazioni fra i paesi.

Ci sentiamo responsabili della guerra che il nostro paese conduce in vari paesi del mondo, chiamandola sempre con altro nome, e che esso sostiene con la costruzione e/o commercializzazione di armi che sono strumenti di morte.

Ci riguarda quanto succede alle altre e agli altri e, in particolare, ci riguarda come donne perché quello che vediamo in azione nelle guerre attuali più che nel passato non sono solo gli interessi geopolitici delle varie potenze internazionali, ma una spinta distruttiva che si perpetua.

Quali gli effetti? le donne zittite sotto un dominio maschile violento, il loro corpo considerato bottino di guerra, vita civile impossibile e sempre precaria.

 Il desiderio di libertà è da coniugare con il senso di responsabilità. Vogliamo darci la prospettiva di produrre cambiamento. Il cambiamento è una necessità, perché, se vince la logica della guerra – sia essa militare o economica o sociale o individuale indotta dalla guerra fra sessi –, la distruzione e la morte si impongono sulla vita.

La strada che noi vediamo percorribile è quella di curare le relazioni, come premessa per la cura del mondo, è quella di “smilitarizzare le menti”, come hanno iniziato a dire le Donne in Nero di Belgrado nel pieno delle guerre balcaniche. Questo percorso ci aiuta a considerare che i nostri diritti da conquistare o da consolidare non devono finire per calpestare i diritti delle altre e degli altri.

 Negli anni abbiamo intessuto relazioni tra noi e con donne che vivono esperienze di guerra e violenza, offrendo sostegno e trovando arricchimento e conoscenza. Abbiamo denunciato, protestato contro le guerre, il militarismo nelle nostre vite, la produzione e il commercio delle armi.

Sentiamo che la nostra libertà passa per questa via. Ma ci sentiamo sconfortate quando ci vediamo sole mentre è solamente nelle relazioni intessute con altre donne che respiriamo un’altra aria e ci sentiamo fiduciose.

 Per noi Paestum è apprendere dalle pratiche di altre donne nuove indicazioni, è la possibilità che esperienze diverse si parlino e si intreccino in un percorso per realizzare condizioni di vita libere, migliori per noi qui e per tutte le altre donne.

Manu Carlon, Elisabetta Donini, Giuliana Ortolan, Barberina Piacenza (Donne in Nero) 

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