domenica 1 novembre 2015

Non ci arrenderemo alla disperazione

  Questo è il titolo di una manifestazione – tra le tante di questo mese – che si è svolta a Gerusalemme il 17 ottobre 2015, in cui ebrei ed arabi sono scesi in strada insieme per un futuro comune. E’ una volontà di resistere che viene di lontano; già nel 2000, all’inizio della Seconda intifada, donne palestinesi e israeliane si erano unite all’insegna dello slogan We refuse to be enemies (Ci rifiutiamo di essere nemiche).
Arabi ed Ebrei rifiutano di essere nemici: Vogliamo vivere in sicurezza. Senza occupazione e senza uccidere.
 Sappiamo fin troppo bene che solo una soluzione equa del conflitto può fermare la violenza e l'odio, 
costruire una realtà diversa e garantire la sicurezza. 

Oggi una nuova generazione è scesa per le strade ribellandosi all'ingiustizia e alle umiliazioni, all’oppressione dell’occupazione, all'espropriazione violenta di terre, alle demolizioni di case, alle misure razziste messe in atto dal Governo israeliano nei confronti dei palestinesi anche se cittadini di Israele. Inoltre l'espansione degli insediamenti coloniali illegali in Cisgiordania, in particolare a Gerusalemme, ha confinato i palestinesi in bantustan sempre più ridotti.

La risposta del governo israeliano è una feroce repressione basata su un uso schiacciante della forza militare e sempre più numerose uccisioni per reprimere le proteste popolari. Il linciaggio di giovani uomini e donne semplicemente perché "sembrano arabi" è in aumento.

La disumanizzazione del popolo palestinese è tale da lasciare impuniti anche crimini orrendi come quello di cui è stata vittima la famiglia Dawabsha nel villaggio cisgiordano di Kfar Douma: sembra quasi incredibile che gli efficientissimi servizi segreti e l'esercito israeliano non abbiano ancora catturato gli estremisti ebrei che due mesi fa diedero fuoco alla casa della famiglia,. Quel rogo carbonizzò il piccolo Ali, di 18 mesi, e nelle settimane successive morì anche il padre, Saad, e la madre, Riham; da allora, resta in ospedale l’unico sopravvissuto, il primo figlio, Ahmad, di 4 anni. I medici sperano di salvarlo, ma in ogni caso la sua vita resterà segnata fisicamente dalle conseguenze di ustioni gravissime (sul 60% del corpo) e psicologicamente dalla perdita di tutti i familiari più stretti.

Rispetto alle pretese del governo di Israele di “normalizzare” l’ingiustizia intollerabile dell’oppressione e della repressione, la rivolta palestinese non è un’anomalia, ma “una lotta di lungo respiro che non si fa illusioni”, come ha affermato di recente lo scrittore libanese Elias Khoury,. “Si tratta di un popolo che resiste per difendere la propria esistenza” e in questo senso occorre guardare oltre la “disperazione” per riconoscere piuttosto la “rabbia e tenacia (sumud in arabo)” con cui si battono donne e uomini palestinesi.

I mezzi di comunicazione italiani scoprono la violenza in Palestina solo quando esplode l’esasperazione dei palestinesi. Noi, Donne in Nero, siamo invece consapevoli che da anni dura l’oppressione dell’occupazione israeliana e che quanto sta succedendo è la conseguenza delle continue violenze che segnano la vita quotidiana dei palestinesi a Gerusalemme, nei Territori Occupati e nella Striscia di Gaza.

Tutti coloro che nel mondo amano la pace sono chiamati innanzitutto ad impegnarsi per porre fine alla complicità dei rispettivi Stati, così come delle imprese, delle istituzioni, nel mantenere il regime israeliano di occupazione, colonialismo e apartheid.

giovedì 22 ottobre 2015

La guerra comincia qui

 
Anche le donne in nero con tante altre e altri si oppongono alle esercitazioni di TRIDENT JUNCTURE 2015 ed alle spinte verso un nuovo scontro mondiale

Siamo tutte e tutti colpiti dalla guerra. Alcuni di noi dalla violenza diretta all'interno dei paesi europei e alle frontiere della fortezza Europa; tutti noi come complici, anche se riluttanti, nella militarizzazione delle nostre società e nelle guerre lontane combattute nel nostro nome. Guerra e militarizzazione iniziano da qui: reclutamento, formazione, esercitazioni militari. Armi vengono prodotte, infrastruttura viene militarizzata, i media e il sistema educativo normalizzano la guerra e promuovono i valori militari che diventano una parte della vita quotidiana

Da anni noi donne in nero ci occupiamo di conflitti armati e guerre a partire dalla relazione con le donne dei luoghi dei conflitti, da tempo insieme a loro abbiamo individuato nella NATO una vocazione militare sempre più accentuata, che è passata da una strategia di difesa ad una di interventi militari, con l’intento di dominare aree sempre più vaste e il miraggio di vantaggi economici e finanziari per i paesi membri, fra i più ricchi del mondo.

La NATO è sempre più propensa alla guerra, in grado di entrare in azione in paesi a noi vicini e ovunque nel mondo.

Dal 3 ottobre fino al 6 novembre si svolgerà in Italia, Spagna e Portogallo la «Trident Juncture 2015» (TJ15), definita dallo U.S. Army Europe «la più grande esercitazione Nato dalla caduta del Muro di Berlino». Con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra di 33 paesi (28 Nato più 5 alleati), questa esercitazione servirà a testare la forza di rapido intervento - Nato Response Force (NRF) - (circa 40mila effettivi) e soprattutto il suo corpo d’élite (5mila effettivi), la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), enfaticamente soprannominata “Spearhead” (punta di lancia), in grado di essere schierata in meno di 48 ore per rispondere “alle sfide alla sicurezza sui nostri fianchi meridionale e orientale”. In altre parole ad intervenire rapidamente, portando la “guerra preventiva”, ovunque si ritengono minacciati gli interessi occidentali estendendo, quindi, l’azione della Nato ad ogni angolo del mondo.

Parteciperanno all’esercitazione, oltre ad alcune tra le maggiori organizzazioni internazionali e governative, anche varie associazioni cosiddette umanitarie e diverse ONG, a dimostrazione della funzione collaterale alle politiche interventiste delle grandi potenze che molte di esse svolgono. Soprattutto vi parteciperanno le industrie militari di 15 paesi pronte a fare altri profitti fornendo le nuove armi di cui la Nato avrà bisogno.

Si legittimano tante guerre in Medio Oriente e Africa con la lotta al terrorismo e al traffico di esseri umani. Le guerre, che devastano, sfruttano terre e popolazioni, sono le vere cause scatenanti dell’enorme afflusso di migranti.

L'Europa è così effettivamente minacciata militarmente da altri paesi tanto da giustificare spese militari crescenti in una situazione di gravissima crisi economica e sociale per cittadine e cittadini?

Interroghiamoci sui pericoli che questo progetto di rafforzamento militare rappresenta, non solo per un futuro di relazioni pacifiche fra i popoli, ma anche rispetto ad una autonomia economica e politica non solo dell'Europa.

Nel nostro paese le spese militari per la NATO sono crescenti a fronte di una grave riduzione delle spese per i beni e i servizi primari necessari, incidendo anzitutto sulla vita delle donne. In un paese di catastrofi, terremoti e allagamenti come l’Italia si continua con un progetto di militarizzazione.

Con le basi e le presenze militari aumentano lo sfruttamento sessuale e la violenza contro le donne. Ad esempio le guerre nei Balcani e in Africa hanno prodotto una enorme industria del sesso e traffico di donne. Corpi di donne sono considerati bottino di guerra e campi di battaglia. Sono donne la maggioranza delle vittime civili, le rifugiate e le sfollate che soffrono lutti inenarrabili. Migliaia sono prive di mezzi di sopravvivenza come in Afghanistan, in Iraq, in Siria, dove oltre allo spreco di risorse per guerre pretestuose con il perdurare di conflitti interni aumentano le divisione nelle popolazioni.

Il linguaggio delle “alleanze” e dei “blocchi” esprime una logica patriarcale orientata alla guerra.

Le installazioni militari della NATO nei nostri paesi danneggiano la vita quotidiana. Le donne rifiutano di essere confinate nel ruolo di vittime, ma hanno e possono, ancor più, avere un compito rilevante nella prevenzione dei conflitti, nella riconciliazione e nella costruzione della pace.


Fuori la guerra dalla storia!

mercoledì 14 ottobre 2015

Sempre più giorni della tragedia

 
Lampedusa 3 ottobre 2013 strage in mare con 366 morti e circa venti dispersi....... Quante altre stragi e quanti morti da allora ?

La morte incombe sulle nostre spiagge, mentre migliaia di famiglie fuggono dalle guerre in Medio Oriente, Asia e Africa, si ammassano nei nostri porti, nelle stazioni alla ricerca di sicurezza e libertà. Quali le cause? La principale è che fuggono dalle guerre provocate dalle potenze mondiali combattute “per procura”, fornendo armi a diverse organizzazioni e gruppi armati (è così che sono nate e cresciute Al Qaeda e ISIS).

 


Ma anche dalle guerre della Nato, che nata con il Trattato Atlantico del 1949 come alleanza difensiva contro i paesi del blocco sovietico avrebbe dovuto scomparire con il crollo dell'URSS nel 1990. Invece si è trasformata, ingrandita con sempre più paesi membri ed è passata, nel 1999, da alleanza militare difensiva a offensiva per "difendere gli interessi economici dei paesi membri ovunque minacciati”. In altre parole per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime in quei paesi. Quando non è la guerra o la fuga da paesi che calpestano i Diritti Umani, l'esodo è provocato dalla fame dalla sete dalla desertificazione dei territori per le politiche di rapina delle multinazionali.

Perché in nome della globalizzazione si chiedono e attuano leggi per la libera circolazione di prodotti e risorse, mentre si innalzano barriere e fili spinati per la circolazione delle persone ?

Che fuggano dalle guerre o dalla povertà i migranti sono tutti profughi

Le  armi producono guerre, non le fermano 

Anche se le chiamano Missioni di Pace sono sempre guerre e producono morti e distruzione, togliendo ogni possibilità futura di una vita e civiltà diverse.


Prima vendiamo le armi 
 l’Unione Europea esporta ufficialmente armi per circa 40 miliardi di Euro l’anno. L’Italia è al 4° posto in Europa fra gli esportatori, con 4,2 miliardi (senza contare i traffici illeciti.) I clienti principali sono i paesi del Medio Oriente (Arabia Saudita, Israele… ) e del nord Africa (Algeria, Libia, Egitto…)


Poi succedono le guerre 
La guerra sta sconvolgendo oggi moltissimi paesi del Medio Oriente (Iraq, Siria, Yemen, Palestina…), dell’Africa (Libia, Mali, Nigeria, Congo, Sudan, Somalia…), in Asia da decenni l’Afghanistan, in Europa Ucraina e Cecenia


Dopo ci sono i profughi 
I conflitti irrisolti e le guerre hanno prodotto ad oggi, oltre 4 milioni di profughi palestinesi, circa 200.000 saharawi accampati nel deserto algerino, 9 milioni di siriani tra sfollati e profughi, 2 milioni di iracheni sfollati. Il flusso di uomini e donne dall’Afghanistan e dall’inferno della Libia, le persone in fuga dalla Somalia, dall'Eritrea, dal Sudan e da altri paesi africani, da anni è continuo.

L’Europa nasce o muore nel Mediterraneo. Salvare vite umane, proteggere le persone, non i confini!

Si aprano subito corridoi umanitari e vie d’accesso legali al territorio europeo, unico modo realistico per evitare i viaggi della morte e combattere gli scafisti. L'Europa deve costruire una risposta di pace, di convivenza, di democrazia, di benessere sociale ed economico, ispirandosi al principio di solidarietà e abbandonando le politiche della sicurezza, dell'austerità, degli accordi commerciali neoliberisti. L'Europa deve investire sul lavoro dignitoso, sulla giustizia sociale, sulla democrazia e sulla sovranità dei popoli.

Si utilizzino per i finanziamenti a queste politiche le risorse destinate agli armamenti. Finanziamo la speranza di vita non la morte!

mercoledì 16 settembre 2015

Gaza: Famiglie cancellate

Un anno dopo l'inizio dell'offensiva militare israeliana sulla striscia di Gaza, la situazione sul terreno a Gaza è terribile, e le vittime ancora aspettano giustizia. 
Gaza è ancora la più grande prigione a cielo aperto del mondo - sotto assedio, occupato e sottoposto a continui attacchi israeliani. 
Foto di cinque membri della famiglia Al Helu. Undici membri della famiglia sono stati uccisi durante un attacco israeliano contro il quartiere di Shujayea :Jehad Mahmoud, 59; Seham Atta, 57; Mohammed Jehad, 29; Tahrir Jehad, 20; Marialoreta Jehad, 15; Ahmed Jihad, 29; Hedaya Talal, 25; Maram Ahmed, 2; Kareem Ahmed, 5 mesi; Karam Ahmed, 5 mesi;

Più di 2.200 palestinesi a Gaza sono stati uccisi la scorsa estate da attacchi israeliani, la maggior parte civili.
Più di 500 erano bambini.
142 famiglie persero tre o più familiari.
Alcune famiglie sono state totalmente cancellate.
Alcune famiglie persero familiari di tre generazioni - nonni, genitori e nipoti.

Foto di Aseel Mohammed Al Bakri (4), sua madre Ibisam Ibrahim Al Bakri (38) e sua sorella Asmaa (5 mesi), visualizzato tra le rovine della loro casa, Al Shati' campo profughi, Gaza City. Sono stati uccisi da un attacco israeliano contro loro casa il 4 agosto 2014, con altri due familiari

Il progetto #ObliteratedFamilies di Activestills (un collettivo di fotografi documentaristi israeliani e internazionali) mira a far luce su queste famiglie e invita persone di coscienza a chiedere giustizia per le vittime.



Foto della famiglia Jouda visualizzato nel loro giardino, dove essi sono stati colpiti da un missile sparato da un drone israeliano su 24 agosto 2014. La madre Rawia (43);  i suoi figli (da sinistra a destra), Tasneem (14), Raghad (12), Osama (6) e Mohammed Issam Jouda (8). Due bambini e il padre sopravvissero all'attacco.

È intollerabile pensare che i superstiti sono lasciati soli nei rovine con il dolore di perdere i propri cari e nessuna prospettiva di un futuro migliore.



Le fotografie e le informazioni di supporto può essere scaricate dal sito di Activestills. Chiedono alle persone di utilizzare i materiali per rendere visibili nelle loro città le famiglie cancellate di Gaza. E poi di inviare le foto delle loro iniziative ad Activestills e di pubblicarle sui social media con l'hashtag #obliteratedfamilies. 

Foto di Afnan Wesam Shuheebar (8), Jehad Issam Shuheebar (11) e suo fratello Giacomo (8). I tre bambini sono stati uccisi durante un attacco israeliano il 17 luglio 2015, mentre davano da mangiare agli uccelli sul tetto della casa della famiglia.


domenica 30 agosto 2015

L'Assemblea delle donne per la libertà chiama per il supporto internazionale contro i massacri di civili in Turchia


 
L'Assemblea delle donne per la libertà in Turchia ha emesso una chiamata urgente per le donne di tutto il mondo per fermare la guerra nel paese.

 

Da quando i soldati turchi hanno iniziato un assalto sulla città di Silopi, nel Kurdistan del Nord (in Turchia), gli attacchi sono aumentati in tutta la regione – più di recente nella città di Silvan, nella provincia di Diyarbakır.

Una delegazione dell'assemblea delle donne per la libertà ha viaggiato per le città, tentando di osservare la situazione dei civili. Il gruppo ora ha emesso una chiamata urgente per le donne di tutto il mondo ad alzare la voce contro i massacri di civili in Turchia.

La delegazione ha riferito che la comunicazione con la città di Silvan è stata tagliata. I militari hanno chiuso le strade per impedire l'accesso. Rappresentanti parlamentare del partito democratico popolare (HDP) sonofinalmente riusciti ad entrare per osservare, ma anche loro hanno perso contatto. Funzionari locali hanno detto alla delegazione che tutte le operazioni sono gestite direttamente dalla capitale turca ad Ankara e che loro non avevano nessun potere nella situazione.

"Siamo state testimoni dei risultati di questo tipo di isolamento a Silopi, in Varto domenica, e lo stesso sta accadendo a Silvan. Ogni volta che si chiude una città, il popolo curdo che vi abita è abbandonato ad affrontare la minaccia del massacro,", hanno scritto le donne.

“ Chiamiamo tutte le donne ad alzare la voce contro questo tentativo di massacro, nel modo più urgente possibile! ”

domenica 12 luglio 2015

A 20 anni dal genocidio, non dimentichiamo mai Srebrenica

"...Chi ci ha separati o resi infelici per sempre?
Volesse il cielo che tutto si tramutasse in pietra per loro e,
come la pietra, restasse ad ammonimento di questo popolo innocente,
fatto di gente comune, che è uno solo,
perché sono tutti di sangue e di carne.
Prego le rondini e gli uccelli e tutti gli esseri viventi con le ali
di volare fino alla mia città
e che salutino le mie compagne e i compagni di lavoro,
e gli amici, se sono vivi."
Ljubica Trikulja, profuga bosniaca

Srebrenica, Bosnia Erzegovina, 11 luglio 1995: oltre 10.000 maschi tra i 12 e 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse comuni. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi.

L'ipocrisia, il cinismo e l'indifferenza della politica interessata solo al potere, fanno sì che ancora, a Srebrenica, le vittime degli orrori debbano vedersi quotidianamente davanti, impuniti, arroganti, beffardi, minacciosi – spesso trasformati in eroi, molti dei loro carnefici o quelli dei loro cari.

Riflettiamo di come l'Unione europea fissò criteri di natura fiscale per la integrazione dei paesi formata dopo le guerre, Mentre guarda impassibile la recrudescenza della violenza nazionalista e gli attacchi contro gli attivisti per i diritti umani in Serbia.

I sopravvissuti, le donne stuprate, le famiglie delle vittime non trovano giustizia e pace a distanza di venti anni.

Il Tribunale delle Donne (Sarajevo, 7-10 maggio 2015) ha esaminato gli effetti della guerra sulle donne e sulla società - effetti che i tribunali ufficiali non hanno tenuto in conto.

Le guerre nazionalistiche nei Balcani hanno voluto cancellare la memoria condivisa tra le donne. Non ci sono parole adeguate per commentare l'orrore di queste guerre, se non quelle delle donne sopravvissute a cui vogliamo dare voce.

Queste sono alcune scritte esposte nell’atrio del Centro Culturale Bosniaco, sede del Tribunale delle Donne ; le autrici sono testimoni del Tribunale:

  • "Non voglio che nessuno mi commiseri. Sono una donna orgogliosa. Lotto. Mi batterò insieme a voi per far sentire le nostre voci.” (Kada, Srebrenica, Bosnia Erzegovina)
  • Tutte le donne qui hanno una missione. Le donne continuano la missione dell’umanità, della giustizia e dei diritti umani.” (Kada, Srebrenica, Bosnia Erzegovina)
  • Mi chiedo come sono sopravvissuta a tutto questo e sono rimasta normale. E’ difficile, ma andiamo avanti.” (Suvada, Dulici, Bosnia Erzegovina)
  • Oggi mi batto per la pace e la giustizia. Finché vivo mi batterò contro l’odio.” (Majka Mejra, Bihac, Bosnia Erzegovina)
  • Io oggi mi sento orgogliosa di raccontarvi la mia vera storia di come sono vissuta e sopravvissuta…” (Zumra, Srebrenica, Bosnia Erzegovina)
  • Sono rimasta viva per raccontare. Come potranno rispondere dei loro crimini se non parleremo?” (Sehida, Srebrenica, Bosnia Erzegovina)
La memoria del genocidio di Srebrenica. Dichiarare! Dichiarare! Dichiarare!

Le donne in Nero di Belgrado dicono che per cambiare la mentalità di ritenere utile la violenza, si deve sapere che la violenza non è la via d'uscita. Con essa non ci sono vincitori. L'unica soluzione è il dialogo e la negoziazione; insistere che i diritti umani sono indivisibili e universali . Chi sceglie la nonviolenza e il dialogo inizia il percorso e assume la responsabilità di difendere tali diritti

domenica 14 giugno 2015

Bambini palestinesi - senza diritti, senza protezione

Questa settimana due eventi hanno evidenziato ancora una volta il dramma dei bambini palestinesi cui vita e benessere sono alla mercé di un occupante spietato ed istituzioni internazionali vigliacchi e indifferenti.

  • L’esercito israeliano ha chiuso l’indagine sull’uccisione dei quattro bambini palestinesi, morti mentre giocavano a calcio durante il bombardamento aereo su una spiaggia di Gaza il 16 luglio del 2014. La magistratura militare ha stabilito che si è trattato di uno scambio di persona, un errore di identità, e che quindi i responsabili non saranno perseguiti penalmente.
Purtroppo questo non è una sorpresa, piuttosto è una procedura ben consolidata: avviene un'atrocità e un'indagine è istituita, che, alcuni mesi più tardi, assolve gli autori di tutte le colpe.
L'impunità degli israeliani di uccidere, ferire e altrimenti abusare i bambini palestinesi non si limita ai soldati. I coloni israeliani prendono sovente di mira bambini palestinesi, o con tentativi di rapimento o con investimenti deliberati in auto. Nell'ottobre 2014, un colono ha investito due ragazze palestinesi che stavano tornando dalla scuola materna. Inas Shawkat Khalil chi aveva cinque anni è morta qualche giorno dopo delle sue ferite. L'incidente è "sotto indagine", ma nessuno è stato accusato.
Secondo B'tselem, gruppo israeliano per i diritti umani: “Quando gli israeliani recano danno ai palestinesi, le autorità attuano una politica non dichiarata di perdono, di compromesso e di clemenza in punizione. Le forze di sicurezza israeliane hanno fatto ben poco per prevenire la violenza dei coloni o ad arrestare i trasgressori. Molti atti di violenza non sono mai stati indagati; in altri casi, le indagini sono state prolungate e alla fine nessuna azione è stata intrapresa.”
  •  Nonostante numerose segnalazioni da parte di Unicef e da altre organizzazioni per i diritti umani delle Nazioni Unite e anche da parte di ONG palestinesi, israeliane e internazionali, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon ha omesso Israele dall'elenco degli Stati che sono colpevoli di abuso di bambini.
Questo elenco viene pubblicato in un allegato di una relazione annuale prodotta dall'ONU sui paesi con il maggior numero di uccisioni e abuso dei bambini. L'elenco evidenzia i colpevoli principali (gli Stati e gli insorti) e normalmente include le parti incluse nella relazione. La sezione su Israele e Palestina include quanto segue:


Nel 2014, la situazione della sicurezza si è deteriorata significativamente nello Stato di Palestina con un'altra escalation delle ostilità a Gaza e un significativo aumento delle tensioni in tutta la Cisgiordania, con devastanti impatti per i bambini. Bambini israeliani e palestinesi, continuano ad essere colpiti dalla situazione prevalente di occupazione militare, di conflitto e di chiusura.

Il periodo di riferimento ha visto un drammatico aumento del numero di bambini uccisi e feriti, soprattutto a Gaza. Almeno 561 bambini (557 palestinesi e 4 israeliani) sono stati uccisi e i feriti sono stati 4721 (4249 palestinesi e 22 israeliani).
In Cisgiordania, 13 ragazzi palestinesi dai 11 ai 17 anni sono stati uccisi. Dodici sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane durante le dimostrazioni e le operazioni militari di ricerca e di cattura, e un ragazzo è stato ucciso dai coloni. Il 15 maggio, due ragazzi palestinesi, avendo 16 e 17 anni, rispettivamente, sono stati uccisi durante gli scontri con le forze di sicurezza israeliane vicino a checkpoint di Beituniya. I rapporti indicano che i ragazzi non sembrano aver rappresentato una minaccia letale. Il 19 marzo, un ragazzo di 14 anni fu mortalmente colpito dalle forze di sicurezza israeliane, mentre attraversava la barriera della Cisgiordania. In un altro esempio, un ragazzo palestinese di dieci anni fu mortalmente colpito alla schiena dalle forze di sicurezza israeliane nel campo di Al Fawwar.

La relazione menziona anche i 700 bambini da Gerusalemme e il 151 dalla Cisgiordania arrestato da Israele e condannati in tribunali militari. L'ONU aveva anche ottenuto testimonianza giurata da 122 minori precedentemente imprigionati su maltrattamenti come percosse con bastoni, essere preso a calci, bendato e soggetto a minacce di violenza sessuale.

Pur avendo la sezione più lunga nel report di tutti i gruppi, Israele non è incluso nella "lista della vergogna", che è ovviamente la parte del report che riceve più attenzione dei media.

Khaled Quzmar, direttore della sezione palestinese di Defence of Children International, ha detto "Rimuovendo le forze armate di Israele dalla lista della vergogna, il Segretario generale Ban Ki-moon ha fornito tacita approvazione per le forze israeliane a continuare a svolgere le gravi violazioni contro i bambini con l'impunità".


domenica 31 maggio 2015

A suon di bombe

Nel 1978, appena eletto alla Presidenza della Repubblica, Sandro Pertini nel suo primo discorso chiamò a scelte di pace: “Svuotiamo gli arsenali, riempiamo i granai”, fu il suo appello. Invece l’Italia non solo continua ad armarsi, ma vende sempre più armi. 

Secondo i dati riportati dalla rivista dei missionari comboniani “Nigrizia”, nel 2014 l'esportazione italiana di armamenti è stata di 1 miliardo e 879 milioni di euro, con un incremento del 34% rispetto al 2013. Non solo, ma ci pare gravissimo che un terzo del totale sia finito nei paesi del Nordafrica e del Medioriente, dove così vengono alimentati focolai di guerra o guerre già in corso. Come altri paesi della parte ricca del mondo, l'Italia concorre non a nutrire il pianeta, ma a seminarlo di bombe.

Tra i troppi sprechi di una politica che esalta il primato delle armi, continua a indignarci che la Festa della Repubblica sia celebrata con una parata militare, per di più molto costosa. In tempi di crisi e di tagli a scuola, sanità, servizi, solo per il 2014 è stato speso 1 milione e mezzo di euro. Il 2 giugno dovrebbe essere l'occasione in cui si ricordano i fondamenti della nostra Costituzione, nata dalla Resistenza, che all'art. 11 afferma: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Da venticinque anni l'Italia, come componente della NATO, è coinvolta attivamente in azioni armate per cui sono state inventate le finzioni più varie: “missioni di pace”, “interventi umanitari”… Ma comunque le si chiami, sono aggressioni che devastano e uccidono.

Con questa stessa logica, che noi consideriamo inaccettabile, si sta organizzando un piano dell'Unione Europea per bombardare e distruggere i barconi degli scafisti prima che salpino dalle coste libiche: e sarà l'Italia ad avere il comando dell'operazione. Tutto questo senza avere affrontato i motivi profondi per cui cresce sempre più il numero di coloro che fuggono dai loro paesi – guerre, fame, carestie, persecuzioni e violenze di ogni genere – e senza avere garantito alcuna sicurezza a chi sta cercando di sopravvivere. Ci saranno così ancora più morti e verranno chiamati “danni collaterali”: ma è un’ipocrisia vergognosa, perché “questi ‘danni’ sono perdite previste e deliberate”: come scrive il generale Fabio Mini su “Repubblica”, 14 maggio 2015).

E noi invece che cosa vogliamo?
• Una giusta, umana accoglienza dei migranti
• il rifiuto di fare guerre, mascherate o no
• smettere di produrre, vendere e comprare armamenti
• … e di conseguenza, una celebrazione della Repubblica che sia davvero una festa disarmata, delle cittadine e dei cittadini.




sabato 23 maggio 2015

Nessun controllo sulla legislazione anti-democratica della coalizione di Netanyahu

La coalizione delle donne per la pace è stata un partito ad una petizione contro la legge israeliana antiboicottaggio, lavorando congiuntamente con Adalah e l'Associazione per i Diritti Civili in Israele. Mercoledì 15 aprile la sentenza dell'alta Corte israeliana ha lasciato la legislazione più o meno intatta. L'unica eccezione era di squalificare un elemento, che ha permesso a chiunque di citare in giudizio per boicottaggio relativi danni "senza prove".

Il disegno di legge anti-boicottaggio è uno di una miriade di legislazione razzista e anti-democratica volta a mettere a tacere l'opposizione e limitare i diritti della minoranza palestinese. La coalizione delle donne per la pace vuole affermare ancora una volta che il boicottaggio è uno strumento universalmente riconosciuto, legittimo e nonviolento nelle lotte per il cambiamento sociale e politico. La Corte israeliana non ha tutelato il diritto dei cittadini alla critica delle politiche del governo.

Non saremo dissuase dal esporre e portare alla discussione pubblica gli interessi economici che guida l'occupazione. Noi cContinueremo a resistere all'occupazione utilizzando tutti i mezzi legittimi e non violenti.

Con l'assenza di controlli legali sulla persecuzione politica in Israele, i commenti scioccanti di Netanyahu nel giorno delle elezioni, esprimendo il razzismo e l'intolleranza del dissenso, saranno senza dubbio scritti nella legge nel prossimo Knesset. La decisione dell'alta Corte non è riuscito a identificare questo grave pericolo. Dà una luce verde alla normativa anti-democratica come il disegno di legge di nazionalità che cerca di stabilire l'ebraicità di Israele nella legislazione; luce verde per istituire una pena di morte per i palestinesi accusati di terrorismo; luce verde per vietare organizzazioni si sinistra di ricevere donazioni.

Tali disegni di legge sono già una parte delle trattative per la formazione di una coalizione. Uno prende di mira anche l'autorità dello stesso ramo legislativo proponendo di impedire l'intervenzione dell'alta Corte nelle decisioni del Knesset e del comitato elettorale centrale.

Alla luce della sentenza della Corte, chiediamo alla comunità internazionale di:

  • Condannare l'attacco contro la società civile israeliana e la libertà di espressione
  • Affermare che il divieto di qualsiasi richiesta di boicottaggio utilizzato come strumento nella lotta contro l'occupazione è anti-democratico.
  • Condannare l'impunità di Israele come una cosiddetta democrazia nonostante la sua apparente mancanza di rispetto dei diritti umani e fondamentali civili.

domenica 3 maggio 2015

Non c'è pace senza giustizia

 

“…c’è una continuità di ingiustizia e violenza che rende difficile distinguere tra le violenze subite durante le guerre e quelle del dopoguerra. Si tratta della continuazione della guerra con altri mezzi, perché viviamo in una pace falsa e fragile piena di ingiustizie, umiliazioni e di ogni tipo di discriminazione….”.

 

A 70 anni dalla Liberazione continuiamo ad essere convinte che non c’è pace solo perché alla fine di una guerra tacciono le armi: la pace deve essere costruita, giorno per giorno. Le guerre della ex-Jugoslavia, che sono state combattute così vicino a noi, ce lo ricordano drammaticamente. La verità di quanto è avvenuto spesso è stata occultata, non lasciando memoria di molti crimini che sono stati commessi in particolare contro le donne.

Il sistema legale istituzionale (nazionale e internazionale) non soddisfa la giustizia: le élite politiche investono uno sforzo enorme per sacrificare gli interessi della giustizia agli interessi politici e al mantenimento del potere. Questa consapevolezza ha guidato il lavoro di molte associazioni di tutti i paesi della ex-Jugoslavia che dal 2011 ha portato alla realizzazione del Tribunale per le Donne della ex-Jugoslavia. Il Tribunale non emette sentenze, ma formula condanne pubbliche e fa pressione sulle istituzioni nazionali e internazionali.

Le nostre amiche dei Balcani ci ricordano che “…c’è una continuità di ingiustizia e violenza che rende difficile distinguere tra le violenze subite durante le guerre e quelle del dopoguerra. Si tratta della continuazione della guerra con altri mezzi, perché viviamo in una pace falsa e fragile piena di ingiustizie, umiliazioni e di ogni tipo di discriminazione….”.

Questo progetto “vuole essere uno spazio per testimoniare e per le voci delle donne, per l'autonomia delle donne, attraverso la loro partecipazione attiva alla costruzione della giustizia e della pace, al fine di creare nuovi paradigmi di giustizia. L'evento finale con testimonianze pubbliche si terrà a Sarajevo/Bosnia Erzegovina dal 7 al 10 maggio 2015” http://www.zenskisud.org/en/index.html


Durante questi quattro anni (2011-2015), le associazioni coinvolte sono state impegnate in intense attività per preparare il Tribunale delle Donne e creare un modello femminista di pace, giustizia e responsabilità. Queste attività comprendevano la creazione di una rete di donne solidali: testimoni, attiviste, terapiste, esperte e artiste provenienti da tutti gli stati della ex-Jugoslavia.

Il Tribunale delle Donne intende creare nuove politiche di conoscenza di quanto è avvenuto, riconsiderare le relazioni tra teoria e pratica/esperienza, costruire solidarietà e fiducia reciproca, storia alternativa delle donne e memoria storica collettiva. Le donne possono così trasformare il dolore che hanno vissuto in un'altra forma di resistenza.

Le donne in questo modo diventano soggetti di una ricostruzione della memoria che restituisca loro la dignità, non confinandole nel ruolo di vittime mute.

Tribunale delle Donne, Sarajevo, 7-10 di maggio 2015 

Uno spazio per le voci delle donne e per le loro testimonianze delle ingiustizie sperimentate durante la guerra e durante la pace;
Uno spazio per le testimonianze di donne della violenza, nella sfera privata e nella sfera pubblica;

Uno spazio per le testimonianze della resistenza organizzata delle donne.

domenica 19 aprile 2015

Un cimitero chiamato mediterraneo



Se l’Unione europea e il mondo continueranno a chiudere gli occhi su queste tragedie in atto nel Mediterraneo saranno giudicati nel modo peggiore, come in passato, quando chiusero gli occhi di fronte ai genocidi e non fecero nulla

Joseph Muscat primo ministro di Malta.

Attorno alla mezzanotte di domenica 19 aprile si è capovolto un peschereccio carico di migranti proveniente dalla Libia - l'ennessima tragedia nel Mediterraneo dove l'annegamento di rifugiati è diventato routine.

Finora sarebbero solo 28 i superstiti e si teme un bilancio di 500 — 700 morti. Il 14 aprile un’altra strage nella stessa zona, almeno 400 persone sono morte nell’affondamento di un barcone proveniente dalla Libia e diretto in Sicilia. 24 i cadaveri recuperati in mare finora dai mezzi di soccorso italiani.

La settimana scorsa, Medici Senza Frontieri (MSF) e Migrant Offshore Aid Station (MOAS) hanno annunciato un'operazione di ricerca, salvataggio e soccorso medico nella zona centrale del mediterraneo, tra l'Africa e l'Europa. L'operazione verrà eseguito da maggio a ottobre, quando si aspetta che migliaia di persone si rischiano la vita per raggiungere la sicurezza dell'Europa. L'anno scorso è stato il più letale finora per quelli che cercavano di arrivare sulle nostre sponde.

Quest'anno sarà peggio, perché la situazione in Africa sta peggiorando e c'è anche meno aiuto disponibile. L'operazione di ricerca e soccorso della Marina, Mare Nostrum, è stato interrotto nel novembre 2014 per mancanza di finanziamenti dai governi europei e non è stato sostituito.

Arjan Hehenkamp, direttore generale di MSF ha detto:

La decisione di chiudere le porte e costruire muri significa che uomini, donne e bambini sono costretti a rischiare la vita e prendere un viaggio disperato attraverso il mare. Ignorando questa situazione non lo farà scomparire. Europa ha sia le risorse e la responsabilità di evitare ulteriori morti e deve agire al fine di farlo.

Ma i governi non sembrano disposti a farlo. Ad esempio,il portavoce del Ministero degli esteri britannico ha detto "Non sosteniamo operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo." ed ha aggiunto che il governo ritiene che c'era "un'involontaria 'fattore di attrazione', incoraggiando altri migranti di tentare il pericoloso attraversamento del mare e portando così a più morti inutili. "

Nessun "fattore di attrazione" è necessario quando le persone sono disperate, costrette a lasciare le loro case a causa di guerra, oppressione e necessità economica – in molti casi il risultato diretto delle politiche militari ed economiche europee. Ma anche senza responsabilità diretta per la loro situazione, sono esseri umani - uomini, donne e bambini - come noi e nostri cari. Abbiamo i mezzi per salvare le loro vite. Non possiamo voltare le spalle.

Fleba il fenicio,
morto da quindici giorni,
dimenticò il grido dei gabbiani,
e il flutto profondo del mare
e il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
gli spolpò le ossa in sussurri.
Mentre affiorava e affondava
traversò gli stadi della maturità
e della gioventù
entrando nei gorghi.
Gentile o Giudeo
o tu che volgi la ruota
e guardi nella direzione del vento
pensa a Fleba,
che un tempo è stato bello
e ben fatto al pari di te.

La Morte per Acqua (T.S. Eliot)


venerdì 17 aprile 2015

Donne in prima linea contro gli attacchi in Yemen

Noi avremmo voluto che i paesi del Golfo, invece di affrettarsi a bombardarci, privilegiassero il dialogo ed invitassero le due parti a un negoziato. Avremmo anche preferito che la comunità internazionale utilizzasse i mezzi di pressione diplomatica, ad esempio che l’Onu esigesse dai ribelli Houthi il disarmo. Invece di ciò, essa ha dato la sua benedizione agli attacchi contro i loro magazzini di armi, senza tener conto dei civili.
Angela Abu Asba, docente al’Università di Sanaa ed attiva nell’associazione femminista “Donne unite".

Meno di una settimana dopo l’inizio dell’offensiva aerea condotta dalla coalizione di 9 paesi arabi contro i ribelli Houthi in Yemen, la popolazione aveva già pagato un pesante tributo: più di 50 civili sono morti negli attacchi, quando decine di donne yemenite sono scese in piazza, sperando ancora di poter frenare la spirale di violenza

Le manifestanti hanno chiesto la fine degli attacchi sullo da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, che appoggia le forze fedeli al presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi contro i ribelli Houthi e hanno esortato gli Houthi a rinunciare alla guerra.

Angela Abu Asba, ha partecipato ad un raduno di donne a Sanaa per denunciare gli attacchi:

Noi facciamo appello a tutte le donne dello Yemen perché diventino costruttrici di pace. Noi abbiamo organizzato questo raduno perché in quanto donne, sorelle, madri, noi non possiamo restare in silenzio di fronte a questa situazione.
 
Tutti i QG degli Houthi che sono bombardati a Sanaa, le caserme, il palazzo presidenziale, sono situati in quartieri residenziali. Sono state spazzate via case, e sono morti dei civili innocenti, in questi attacchi. Le scuole e la maggior parte delle attività commerciali sono chiuse. La gente è atterrita. Non osano più uscire di casa, e anche dentro non sono al sicuro.

Le ragazze rappresentano più del 70% degli studenti che frequentano l’istituto di lingue in cui lavoro. Da 5 giorni, non vengono più ai corsi. L’università per loro era una boccata di ossigeno e una speranza di futuro in questa società conservatrice. L’edificio non ha chiuso i battenti, ma ormai i loro genitori non le lasciano più venire. E’ una situazione incresciosa!

La nostra iniziativa unisce donne di ogni tipo, insegnanti, attiviste di partiti politici, professioniste. Ma noi condividiamo lo stesso obiettivo: vogliamo la pace per il nostro paese e facciamo appello a tutte le donne dello Yemen perché diventino costruttrici di pace.

Certo, noi denunciamo questo intervento straniero nel nostro paese, ma ce l’abbiamo anche con gli Houthi, che stanno mettendo a ferro e fuoco il sud del paese, le province di Aden, Lahj, Ad Dali’. Se siamo qui oggi è a causa di Abdelmalek Al-Houthi (il leader della rivolta houthi) e del presidente Hadi. L’uno è nascosto da qualche parte al sicuro e l’altro è confortevolmente alloggiato nei saloni sauditi, mentre gli Yemeniti sono massacrati.

Nel nostro paese hanno cominciato a diffondersi discorsi settari.  Noi avremmo voluto che i paesi del Golfo, invece di affrettarsi a bombardarci, privilegiassero il dialogo ed invitassero le due parti a un negoziato. Avremmo anche preferito che la comunità internazionale utilizzasse i mezzi di pressione diplomatica, ad esempio che l’Onu esigesse dai ribelli Houthi il disarmo. Invece di ciò, essa ha dato la sua benedizione agli attacchi contro i loro magazzini di armi, senza tener conto dei civili.

Ieri, ho preso alcune foto di una collina della periferia di Sanaa, dove erano state bombardate le armi. Le schegge sono arrivate fino alle case del mio quartiere e fatto tremare le finestre. Non oso immaginare cosa sia capitato ai civili che vivono vicino a quella collina.

In questi ultimi tempi, nel nostro paese hanno cominciato a diffondersi discorsi settari, discorsi di una contrapposizione fra sunniti e sciiti che non esiste nelle tradizioni della nostra società. Noi facciamo appello a tutte le donne dello Yemen perché lottino contro i discorsi di odio e vengano in aiuto alle vittime. Noi continueremo la nostra mobilitazione contro questa guerra immonda. Se occorre usciremo nelle strade, formeremo degli scudi umani per fermare questo conflitto fratricida.”

Oggi sulla sua pagina facebook, Angela Abu Asba ha fatto un appello a tutte le organizzazioni della società civile e alle agenzie umanitarie del mondo.

Oltre 25 milioni di yemeniti stanno affrontando una catastrofica crisi umanitaria nel vero senso della parola. Necessità come cibo, acqua e medicine non sono accessibili. A causa di lunghe interruzioni della fornitura di energia elettrica, ospedali non possono funzionare.

Facciamo appello a voi di mettere tutti i vostri sforzi per fermare questa guerra e le lotte intestine che sono causati da interessi politici regionali e internazionali. politico.

sabato 4 aprile 2015

L’Iraq, la Somalia, la ex-Yugoslavia, l’Afghanistan, di nuovo l’Iraq, la Libia- Queste guerre quanto e cosa ci costano?

 

Contatele: sono le basi militari NATO/USA in Italia. E il governo concede anche l'uso di strade e ferrovie. La guerra è molto vicina a ciascuna/o di noi

 


Non siamo d'accordo con la ministra della difesa Roberta Pinotti, che, appena accaduti a Tunisi e nello Yemen nuovi massacri, ha annunciato l'operazione Mare Sicuro poiché “le crisi si sono avvicinate”. Eppure persino il presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha dichiarato nei giorni scorsi che 

“l'Isis è il diretto risultato di Al Qaeda in Iraq che è cresciuta con l'invasione USA”.

E noi aggiungiamo che altrettanto sta accadendo in Libia.

Nelle guerre degli ultimi 25 anni, l’Italia è stata molto attiva e continua ad attivarsi: abbiamo avuto l’Iraq, la Somalia, la ex-Yugoslavia, l’Afghanistan, di nuovo l’Iraq, la Libia… per molti di questi paesi l’Italia diventa un nemico, ed è per questo che è esposta a rischi. Siamo in guerra perché l’Italia è all’interno di una organizzazione (la NATO) che ha lo scopo di essere pronta a fare la guerra, in stretta relazione con gli Stati Uniti.

Queste guerre quanto e cosa ci costano?

Il territorio: utilizzato per le basi militari NATO e USA, che sono più di cento, il cui mantenimento grava per oltre il 30% sul bilancio nazionale; l’inquinamento provocato dalle basi, in cui non si può intervenire perché al di fuori del controllo legale e sanitario italiano; l’inquinamento provocato dalle esercitazioni militari italiane e internazionali, in cui si sperimentano armi e infrastrutture che avvelenano l’ambiente.

In due delle basi – Aviano e Ghedi – sono immagazzinate tra 70 e 90 bombe nucleari americane, anche se l’Italia ha firmato il trattato di non proliferazione delle armi atomiche, e non potrebbe neppure averle o farle transitare sul proprio territorio.

E malgrado la situazione di crisi e i tagli ai principali diritti e servizi di interesse sociale, le spese per la difesa non sono diminuite, anzi: malgrado una quasi promessa di ridurre o cancellare il programma di acquisto degli F-35, ad oggi il governo ha confermato l’acquisto di 90 cacciabombardieri d’attacco. Renzi inoltre ha promesso di aderire alle richieste NATO di portare il bilancio della difesa al 2% del PIL, il che significa passare dall’attuale spesa di 70 milioni di euro al giorno a 100 milioni al giorno!!!

Non ci sentiamo protette né dalle basi né dalle operazioni militari, che anzi rischiano di trasformarci in obiettivi di guerra. Come la sicurezza nei rapporti quotidiani nasce dallo stare bene con chi vive intorno a noi, a livello di relazioni internazionali abbiamo bisogno non di una politica estera aggressiva e coloniale, ma basata sulla collaborazione, il sostegno reciproco e la giustizia.


martedì 24 marzo 2015

Il Tribunale delle donne per la ex Jugoslavia

 

Il silenzio è tutto il nostro terrore
c'è riscatto nella voce
ma il silenzio è l'infinito.
Per sé non ha volto.

Emily Dickinson


 

Testimonianze pubbliche al tribunale delle donne saranno ascoltatia a Sarajevo presso il Bosanski Kulturni Centar dal 7 al 10 maggio 2015. Si può registrare con le donne in nero di Belgrado, zeneucrnombeograd@gmail.com.

L'iniziativa regionale Tribunale delle donne - un approccio femminista alla giustizia è stato lanciato da sette organizzazioni femministe provenienti dai paesi della ex Jugoslavia.

Il Tribunale delle donne per la ex Jugoslavia vuole essere uno spazio per testimoniare e per le voci delle donne, per l'autonomia delle donne, attraverso la loro partecipazione attiva alla costruzione della giustizia e della pace, al fine di creare nuovi paradigmi della giustizia.


Perché organizzare il tribunale delle donne?

Perché il sistema legale istituzionale (nazionale o internazionale) non soddisfa la giustizia; questo è particolarmente vero per i paesi dell'ex Iugoslavia, dove le élite politiche investono uno sforzo enorme per aggirare la giustizia, o sacrificare gli interessi della giustizia agli interessi politici e al mantenimento del potere.

Perché, attraverso Tribunale delle donne, le donne diventano soggetti di giustizia, incoraggiate a creare pratiche legali diverse e a influenzare il sistema giuridico istituzionale.

Perché Tribunale delle donne è uno spazio per le voci delle donne e le testimonianze delle donne sulle ingiustizie quotidiane subite durante la guerra e ora, in tempo di pace; nei Tribunali delle donne, le donne testimoniano della violenza in ambito pubblico e privato. 


Perché il Tribunale delle donne incoraggia il rafforzamento di reti di mutuo sostegno e di solidarietà, e la creazione di un movimento autonomo forte delle donne.
Perché Tribunale delle donne incoraggia la creazione di concetti diversi-femministi di responsabilità, di cura e sicurezza, al fine di costruire una pace giusta.


Cosa vogliamo ottenere organizzando il tribunale delle donne?


Incoraggiamo le donne a testimoniare su tutti i tipi di ingiustizia strutturale: la povertà, lo sfruttamento sul luogo di lavoro e ovunque, le minacce sociali e sanitarie, e l'abuso della religione a fini politici.

Scriviamo storia alternativa: attraverso pubblicazioni che informano circa le esperienze di precedenti Tribunali delle Donne (finora ci sono stati oltre 40 Tribunali delle Donne nel mondo); e pubblicazioni che raccolgono le nostre esperienze relative all'organizzazione del Tribunale delle Donne per l'ex Jugoslavia.

Rafforziamo alleanze e coalizioni femministe-pacifiste globali: per ottenere punizione per violenza e crimini, per influenzare le istituzioni internazionali di giustizia, per iniziare a fare i documenti e le risoluzioni sulla base di esperienze quotidiane di ingiustizia contro le donne e contro tutti coloro con minor potere sociale, economico e politico.


Quali attività abbiamo organizzato prima el tribunale delle donne?


  • Lavoro in campo educativo: seminari, workshop, conferenze e tavole rotonde...
  • Ricerca sul campo interattiva, per raccogliere informazioni e proposte sul concetto e la visione della giustizia, e per determinare i temi che il Tribunale delle Donne deve affrontare.
  • Gruppi di sostegno al Tribunale delle Donne: coalizioni di attivisti/e, rappresentanti dei mezzi di comunicazione, di artisti/e.
  • Incontri pubblici di lavoro, al fine di presentare l'iniziativa.
  • Proiezioni di documentari sulle esperienze delle donne con Tribunali simili a livello internazionale, e su esperienze di gruppi e reti di donne riferite all'approccio femminista alla giustizia.
  • Eventi artistici: spettacoli teatrali, mostre, performances...

Sito web http://www.zenskisud.org/en/index.html e newsletter sulle diverse esperienze relative all'organizzazione del Tribunale delle Donne.


Che metodologia è usata dal tribunale delle donne?


La metodologia del Tribunale delle Donne collega un testo soggettivo (la testimonianza di una donna) con l'analisi oggettiva del contesto politico, socio-economico e culturale in cui la violenza ha avuto luogo.

Testimoni esperti spiegano il contesto politico, di genere, socio-economico, etnico-razziale e culturale della violenza, analizzandone cause e conseguenze e definendo il contesto per le singole testimonianze.

La Giuria a livello locale e regionale è composta da donne e uomini che godono di un alto livello di rispetto tra le donne e le organizzazioni di donne - e sono soprattutto donne attiviste, scienziate, esperte in campo giuridico, economico, di comunicazione, ecc.

La Giuria Internazionale è composta da donne e uomini che hanno un'ottima conoscenza della situazione e del contesto e che godono di grande rispetto internazionale e integrità morale.

Il Tribunale non emette sentenze, ma formula condanne pubbliche e fa pressione sulle istituzioni nazionali e internazionali. Il Tribunale può avviare le opportune misure contro l'autore di un reato, ad esempio con la raccolta di prove per l'azione legale.

L'estetica è una dimensione importante del Tribunale - introdurre questa dimensione ha permesso alle donne di trasformare il dolore che hanno vissuto in un'altra forma di resistenza. Attraverso varie forme di espressione artistica, dall'espressione poetica, la pittura e la musica alla danza, all'artigianato e forme di teatro, le donne hanno trasmesso le loro esperienze più dolorose ad altri.


Cosa è il processo di preparazione per l'organizzazione del tribunale delle donne?


Il processo di preparazione dipende dal contesto e dalla valutazione e decisione di chi organizza il Tribunale. In India il processo di preparazione è durato due anni; in alcuni paesi ci sono voluti periodi di tempo più lunghi e in altri più brevi. In Jugoslavia, i preparativi sistematici e organizzati sono iniziati alla fine del 2010, anche se l'iniziativa per l'organizzazione del Tribunale esisteva già da circa un decennio.

Il processo preparatorio è inclusivo e democratico e significa che è necessario inserire i gruppi di donne attiviste, i gruppi per i diritti umani, le donne attiviste del sindacato, donne appartenenti alla comunità accademica, donne dei media, artiste e, naturalmente, tutte le donne interessate.

Quando si organizza un Tribunale delle Donne, l'obiettivo e il processo sono ugualmente importanti - l'obiettivo è molto importante, ma è il processo che ci permette di raggiungerlo.

E' molto importante che le donne testimoni al Tribunale siano sostenute sia durante il processo preparatorio e le udienze, ma anche dopo il Tribunale. 



Libia-Medioriente: Fermare l'escalation militare è possibile?

Noi crediamo di si!

Riteniamo che si debba escludere l’intervento armato in LIBIA dove la situazione è, veramente, drammatica. La guerra non è “La” soluzione ma “Una” risposta obbligata per alcuni. Noi, Donne in Nero, siamo sicure che si possa scegliere la nonviolenza, anche in Libia. E VOI?

Non dimentichiamo ciò che ha portato alla violenza e all'estremismo nella Libia e il contributo del nostro governo alle sofferenze del popolo libico.

Il 19 marzo 2011 iniziava il bombardamento della Libia: in sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettuava 10mila missioni di attacco, con oltre 40mila bombe e missili. Contemporaneamente, venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Venivano infiltrate in Libia anche forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani. A questa guerra, sotto comando Usa tramite la Nato, partecipava l’Italia con le sue basi e forze militari. Sono stati gli alleati Nato, come già ampiamente documentato, a finanziare, armare e addestrare in Libia nel 2011 gruppi islamici, tra cui i primi nuclei del futuro Isis, e a rifornirli di armi. 




Bombardare la Libia ha portato alla situazione tragica di oggi, ha fomentato l'estremismo criminale dell'ISIS e delle sue milizie. Facciamo in modo di spegnere l'incendio?

Noi proponiamo di scegliere altre strade per contribuire a ricomporre e riconciliare le diverse comunità di quella regione.

Che fare?

  • Bloccare le fonti di finanziamento del terrorismo, la vendita delle armi e del petrolio, la complicità con i diversi gruppi di miliziani armati che imperversano nella regione.
  • Inviare Corpi Civili di Pace a sostegno della società civile libica, delle comunità di donne e degli operatori di pace locali.
  • Utilizzare tutte le forme della diplomazia e della politica perché si arrivi ad un accordo tra le parti in conflitto, che coinvolge i rappresentanti delle comunità locali e affronta i temi della militarizzazione della politica libica e i diritti delle donne a partecipare alla vita politica del paese.



La questione della rappresentanza femminile in una democrazia che non ha alcun controllo di armi è un'ipocrisia. Le elezioni da solo non aiutano a raggiungere l'empowerment delle donne. Ci vuole di più. Ci vuole affrontare i problemi reali - militarizzazione, disarmo, smobilitazione, reinserimento dei rivoluzionari armati e nessun impunità per i signori della guerra.
Zahra Langhi, Piattaforma libica delle donne per la pace

sabato 7 marzo 2015

Chi sorride col dolore in fondo agli occhi

 

Rada e le donne bosniache: il lavoro per seppellire l’odio e tornare a vivere

 


Nel 2003 un gruppo di donne, vittime di opposti nazionalismi, ha creato una cooperativa per la lavorazione di lamponi a Bratunac, vicino Srebrenica. Oggi i soci sono 500 e i loro prodotti sono venduti anche in Italia. La loro storia sarà raccontata in un film. L’8 marzo sono in Italia.

Si chiamano Rada, Maja, Beba, Nermina. Sono musulmane, cristiano-ortodosse, sono operaie, contadine, agronome. Sono donne nate in Bosnia Erzegovina a cui la guerra ha portato via mariti, padri, fratelli. Sono vittime di opposti nazionalismi. Da 12 anni, queste donne lavorano, insieme, in una cooperativa agricola per la lavorazione di lamponi e altri piccoli frutti a Bratunac, a 11 chilometri da Srebrenica, sulla riva occidentale della Drina, al confine tra Bosnia Erzegovina e Serbia, zona che durante la guerra è stata teatro di duri scontri. 


Un’esperienza, quella della cooperativa, nata dall’idea di 10 persone, in maggioranza donne, che, nel 2003, hanno deciso di costruirsi un futuro, riattivando l’economia rurale del villaggio (fino al 1991 Bratunac rientrava nella maggiore zona di produzione di piccoli frutti della Jugoslavia, tanto che il 90% della popolazione del villaggio era legata a essa). E resa possibile, oltre che con il lavoro di operatori umanitari impegnati in organizzazioni di volontariato raccolte nel Consorzio italiano di solidarietà (da qui anche la scelta di un nome italiano per la cooperativa), anche grazie all’amicizia tra Radmila ‘Rada’ Zarkovic, originaria di Mostar, un passato con le Donne in nero e attuale presidente della Cooperativa Agricola Insieme, Skender Hot, di Tuzla che della cooperativa è direttore, e Mario Boccia, fotogiornalista italiano che ha seguito e documentato il conflitto nei Balcani fin dall’inizio.

Nessun manager avrebbe scelto di fare impresa lì perché è il luogo dove si è consumata la strage più grande, dove l’odio e il rancore sono stati i più forti – racconta Boccia – In questo senso, il progetto della cooperativa è politico oltre che solidale, perché quelle donne hanno capito che per ricominciare una vita comune dovevano ricostruire le condizioni per poterla vivere, a partire dal lavoro. Rada mi diceva: ‘Non voglio fare un convegno sul dialogo interreligioso o su quanto è bello stare insieme, voglio offrire lavoro’. E così è stato”.

Oggi i soci della cooperativa sono più di 500 e 28 le persone, in maggioranza donne, che lavorano nello stabilimento dove la frutta viene surgelata o trasformata in confetture e succhi. I loro prodotti sono venduti anche in Italia. E a Bratunac, a differenza di Srebrenica e di altre zone del Paese, i rientri di chi è stato cacciato durante la guerra sono stati moltissimi. Anche grazie alla cooperativa, che ha permesso di avviare un processo di riconciliazione.


Queste donne erano sì vedove, ma non vogliono più essere chiamate così perché si sono rifatte una famiglia – dice Boccia – Il dolore c’è, ma è una cosa intima non da esibire. L’hanno superato nell’interesse dei figli, per andare avanti”. Niente vittimismo, dunque, ma riconoscimento dell’altro come vittima della stessa violenza subita e non come nemico. “Qui parecchie persone scomparse non sono mai state ritrovate. Quando capita, ciò che resta viene riconsegnato ai familiari che possono seppellirli o fare un funerale – continua -. Sono momenti molto tesi e in cooperativa tutti partecipano al dolore, anche gli altri, i ‘diversi’, è un fatto importantissimo perché significa che queste persone vivono davvero insieme e non le une accanto alle altre”.

La cooperativa ha permesso a tanti lavoratori della zona di consolidare la propria attività. I lamponi si raccolgono una volta l’anno ed essendo deperibili devono essere venduti subito, accettando anche prezzi bassi. Diventando soci, si conferisce il prodotto alla cooperativa dove viene surgelato e poi venduto. Ma non è stato facile perché i lamponi surgelati della Bosnia Erzegovina non erano più competitivi di quelli di altri Paesi membri dell’Unione europea.

Così la Cooperativa Insieme ha scelto di iniziare a produrre confetture e succhi. Per farlo ha dovuto ricorrere a prestiti bancari. Nel 2005 però un finanziamento della Cooperazione internazionale ha permesso loro di consolidare il lavoro. Ma era necessario trovare sbocchi di vendita. La svolta, resa possibile dalla rete di amicizia solidale che circonda queste donne, è arrivata perché il prodotto non è solo etico, ma è anche buono. “Quando è stato assaggiato da Coop Italia, il commento è stato: ‘Ma qui c’è solo frutta!’”, dice Boccia. In Italia, la maggior parte dei prodotti della Cooperativa Agricola Insieme è veicolata da Alce Nero tramite Coop, soprattutto Nordest e Lombardia, circa il 15% da Ctm Altromercato e il resto da MioBio, piccolo importatore che rifornisce la rete dei Gruppi d acquisto solidale. Il prodotto surgelato viene venduto anche in Turchia, Croazia e Serbia. “Ci sono stati momenti difficili nella vita della cooperativa, l’ultimo nel maggio del 2014 con l’alluvione – racconta Boccia – ma quei momenti hanno portato a manifestazioni di solidarietà, trasversale”.

La storia della Cooperativa Agricola Insieme e dell’amicizia che l’ha resa possibile diventerà un film. A girarlo i registi Mario e Stefano Martone che, dopo i primi sopralluoghi a Sarajevo, Tuzla, Mostar, Srebrenica e Bratunac, torneranno in Bosnia in estate per terminare le riprese. Sarà un momento importante, spiegano gli autori sul sito del progetto, “sia per la cooperativa, perché inizia la stagione della raccolta, che per la Bosnia, dato che a luglio 2015 saranno trascorsi 20 anni dal massacro di Srebrenica”. Già autori di “Napoli 24”, documentario presentato al Torino Film Festival 2010, e di “Lucciole per lanterne”, ambientato nella Patagonia cilena, i Martone puntano a raccogliere 10 mila euro, per realizzare il documentario, attraverso il crowdfunding. Il titolo che hanno scelto è “Dert” che, come racconta Rada nel teaser è una parola difficile da tradurre in italiano, “indica una persona che sorride ma che ha il dolore in fondo agli occhi”.







In occasione della Giornata internazionale della donna che si celebra l’8 marzo, le donne della Cooperativa Agricola Insieme partecipano a un incontro promosso dai Parlamentari italiani per la pace che si tiene alle 15 nella Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, previsto il saluto della presidente della Camera, Laura Boldrini, una degustazione dei prodotti della cooperativa e una mostra sulla ex Jugoslavia con fotografie di Mario Boccia. “Un’iniziativa importante, voluta, che racconta un percorso di riconciliazione e di costruzione della pace”, commenta Giulio Marcon, deputato di Sel che negli anni Novanta è stato presidente del Consorzio italiano di solidarietà. 


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giovedì 5 marzo 2015

Il corpo della donna non è un'arma di guerra




"Non voglio essere etichettata come una vittima."

Così ha detto una delle 32 donne provenienti da Siria ed Iraq che si sono riunite a Istanbul per una conferenza da 26 al 28 gennaio.
 

L'obiettivo della conferenza è stato quello di porre fine all'uso della violenza sessuale come arma nei conflitti nella regione della Siria/Iraq. Le donne sono in grande aspettativa, forti e determinate. Fanno sentire le loro voci dove gli altri tacciono. E sono attive sostenendo i diritti umani dove molte organizzazioni internazionali non osano andare.

L'evento è stato organizzato dalla Lega internazionale delle Donne per la Pace e la libertà e da MADRE, (una ONG statunitense che lavora per i diritti umani delle donne) con il finanziamento del Ministero degli esteri britannico. Le partecipanti stanno lavorando in aree controllate da ISIL (Stato Islamico) o dai governi di Siria ed Iraq. A volte in pericolo reale per la vita, ogni giorno documentano crimini di violenza per poter chiedere giustizia in una data successiva.

""Le armi non crescono sugli alberi!" : gli interessi occidentali fomentano conflitti, crisi e guerra

Viaggiare a Istanbul era molto rischioso per molte donne, ma per loro era estremamente importante prendere parte alla conferenza. Hanno voluto raccontare le loro esperienze ed elaborare richieste per la comunità internazionale. Alla fine della conferenza, i risultati sono stati presentati a rappresentanti diplomatici di vari paesi.

Le partecipanti hanno analizzato le cause dei conflitti in Iraq e Siria. Secondo questa analisi, particolare importanza è data al vuoto politico che ha aiutato i gruppi militanti come ISIL a salire al potere. Anni di occupazione e di intervento coloniale da parte degli Stati Uniti e altre potenze occidentali hanno creato questo vuoto. Processi di radicalizzazione sono stati messi in moto.  


In questo modo, i conflitti hanno alimentato violazioni dei diritti umani delle donne nel contesto di una società fortemente patriarcale. Per questo motivo, le attiviste chiedono soluzioni politiche della comunità internazionale oltre all'assistenza finanziaria. Una misura sarebbe il divieto di importazione di armi poiché, come ha detto una giornalista siriana: "Le armi non crescono sugli alberi, ma sono trasportate attraverso le frontiere!." E l'Occidente gioca qui un ruolo decisivo

Crisi Siria-Iraq sta distruggendo il settore sanitario:


Aiuti a breve termine non forniscono una soluzione a lungo termine! Le attiviste chiedono anche investimenti nel settore sanitario. Una donna ha raccontato la situazione in Siria, sostenendo che il governo e le organizzazioni terroristiche costituiscono entrambi un pericolo per la popolazione generale. Il governo sta sistematicamente uccidendo i suoi cittadini e distruggendo il sistema sanitario. Su 5 milioni di persone che necessitano di assistenza sanitaria, 3 milioni non ricevono niente. Inoltre, le attiviste criticano gli aiuti a breve termine delle organizzazioni internazionali. A lungo termine la loro efficacia è carente. Per esempio, non prevede il pagamento degli stipendi ai professionisti sanitari locali. L'ultimo ospedale di Aleppo è minacciato di chiusura, poiché non c'è denaro per pagare i salari e i costi operativi che ammontano a circa 70.000 dollari al mese.

Numerosi stupri e altri casi di violenza contro le donne; poche offerte di assistenza psicosociale

In un workshop tenuto da Medica Mondiale, una ONG che supporta le donne e le ragazze che hanno subito violenza sessuale, si potrebbero condividere esperienze e conoscenze relative alle varie opportunità e sfide di svolgere assistenza psicosociale in zone di guerra. Le donne hanno sottolineato quanto poca assistenza psicosociale sia disponibile. Hanno descritto un enorme bisogno di esperti di formazione per attiviste e operatori sanitari: personale specializzato, spazi sicuri per le sopravvissute e sostegno psicosociale a lungo termine sono necessari più di qualche sessione di counselling. Nei campi profughi, purtroppo, c'è una mancanza di sostegno psicosociale e misure preventive.

Stigmatizzazione dello stupro: un problema enorme per sopravvissute e organizzazioni umanitarie

Una delle cause per la mancanza di offerte di sostegno secondo alcune attiviste è la forte stigmatizzazione sociale della violenza sessuale. "L'assistenza" dal governo per le superstite potrebbe in realtà portare a ulteriore stigmatizzazione perché spesso include controlli di verginità.

Alla fine della conferenza le partecipanti hanno fatto le seguenti raccomandazioni per affrontare la violenza sessuale in Iraq e la Siria.

  •   Aumentare l'accesso ai servizi medici e psicosociali per le donne sopravvissute alla violenza. Garantire sostegno per servizi esistenti e collegare le sopravvissute con servizi attraverso reti di riferimento sicure e programmi che garantiscano l'accesso per le donne, nonostante la mobilità limitata.
  •  Consolidare sforzi con le organizzazioni internazionali per migliorare la partecipazione delle organizzazioni locali in progetti internazionali e meccanismi internazionali per i diritti umani. Collegare le organizzazioni internazionali alle organizzazioni di base è necessario al fine di rendere la pianificazione e supporto il più vicino possibili ai bisogni esistenti.
  • Esercitare pressioni sui governi per emendare le leggi discriminatorie nazionali e introdurre nuove leggi per fermare l'impunità e proteggere le donne da stigmatizzazione, molestie e delitti d'onore.
  •  Fornire supporto tecnico per colmare le lacune tra le legislazioni nazionali e gli standard internazionali dei diritti umani. Tale sostegno dovrebbe includere programmi di sensibilizzazione legale per tutte le parti interessate, redazione di schemi giuridici adeguati per riformare sistemi attuali che discriminano le donne.
  •  Fornire corsi di formazione per attiviste e organizzazioni sul supporto psicosociale e sanitario per le superstiti delle violenze, sulle procedure per intervistarle e documentare i crimini di violenza sessuale.
  • Sviluppare strategie di empowerment che assicurino la riabilitazione dei sopravvissuti di violenza sessuale attraverso i programmi di reinserimento psico-sociale, economica e sociale. Rafforzare la capacità dei gruppi di diritti delle donne a sostenere i diritti delle donne e i bisogni delle superstiti.
  • Fornire supporto tecnico, finanziario e logistico per programmi mirati sulla riforma dei media affinché le donne non siano più presentate come vittime.
 
Spesso sentiamo le parole "dobbiamo fare qualcosa" per giustificare l'ennesimo ricorso alla guerra. Qui vediamo le richieste concrete dalle donne più direttamente coinvolte in una crisi. È chiaro che vedono gli interventi militari come parte, o addirittura la causa principale, del problema, non la soluzione.