venerdì 25 marzo 2011

Appello della Rete Italiana delle Donne in Nero per il Ritiro delle Truppe dall'Afghanistan

L’Italia è un paese in guerra

Non si combatte sul nostro territorio, ma è in atto il meccanismo della guerra con tutto ciò che questo comporta: aumento delle spese militari, militarizzazione del territorio e delle menti.
Il coinvolgimento dell’Italia nell’intervento militare in Afghanistan inizia alla fine del 2001con l’adesione alla missione ISAF col carattere di “assistenza alla sicurezza” e l’invio di 350 militari.
Avrebbe dovuto durare “almeno 6 mesi” e costare “qualche decina di miliardi di lire”.

Invece sono passati quasi 10 anni.

La missione di “peacekeeping “ è diventata missione di guerra, dalla guida Onu si è passati a quella della Nato con un colpo di mano nel 2003, dall’armamento leggero a quello di assalto, da “regole d’ingaggio leggere” a regole sempre più pesanti, dai 350 militari iniziali ai 1000 del 2003 fino ai 3900 del 2010 e ai 4200 di oggi.

Dall’inizio della missione il costo complessivo è stato di 3 miliardi e 100 milioni di euro, e continua al costo di 65 milioni di euro al mese.

Il rifinanziamento dell’intervento militare avviene ormai ogni sei mesi in modo bipartisan, con qualche eccezione, in violazione dell’art. 11 della Costituzione, senza mai ridiscutere in Parlamento gli obiettivi raggiunti. E’ successo anche nel febbraio scorso.

Solo per la missione in Afghanistan per i primi sei mesi del 2011 sono stati stanziati 410 milioni di euro (2,26 milioni al giorno), mentre sempre più striminzito è il finanziamento per i progetti di ricostruzione e assistenza (appena 16 milioni nel semestre).

A fronte dei tagli feroci a scuola, cultura, ricerca, sanità, Enti Locali, ambiente, in Italia vediamo il settore degli armamenti e delle spese militari non subire mai alcuna riduzione, al contrario di quanto avviene in altri paesi europei.

Dal 2006 in Italia vi è stato un aumento delle spese militari del 28% e per il 2011 è previsto un ulteriore aumento dell’8,4%. A questo si aggiungono i fondi per il Ministero dello Sviluppo, impropriamente destinati ai nuovi sistemi d’arma, ai quali si sommano 1,5 miliardi di euro per le missioni militari all’estero.

La cifra totale raggiunge quindi i 24,3 miliardi di euro. Tra i progetti finanziati c’è anche l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35 al costo di 16 miliardi di euro e quello di dieci fregate al costo di 5,6 miliardi di euro.

La guerra in Afghanistan rientra nel concetto strategico della NATO,definito nel summit di Lisbona il 20 novembre del 2010, che consiste nell’inglobare sempre più paesi e nell’intervenire laddove i loro interessi vengano “minacciati”, esercitando così una forma di dominio del mondo e una continua minaccia per la pace.

Noi Donne in Nero siamo sempre state contro la guerra, perciò anche contro l’intervento militare in Afghanistan.

Alla luce della situazione attuale, denunciamo il fallimento di tutti gli obiettivi dichiarati: lotta al terrorismo, portare la democrazia e sicurezza, liberare le donne afghane.

In realtà i talebani hanno ripreso il controllo dei due terzi del paese, Karzai è stato rieletto con i brogli, il conflitto si è esteso al Pakistan, i signori della guerra e dell’oppio comandano, la povertà colpisce ormai l’80% della popolazione, l’aumento della produzione di oppio è arrivato ormai al 93% di tutto quello prodotto nel mondo, dilaga la corruzione, la vita delle donne è peggiorata al punto che i suicidi sono aumentati a livelli senza precedenti (donne fra i 18 e i 35 anni si danno fuoco per sottrarsi alla violenza insopportabile del loro destino).

Il governo Karzai ha reintrodotto il “Ministero per i Vizi e le Virtù” e ha firmato una legge secondo la quale le donne sciite non possono rifiutare il rapporto sessuale con il marito, non possono andare a scuola, dal medico, al lavoro senza accompagnamento maschile.

Ora sta emanando una legge che mette sotto diretto controllo governativo le case-rifugio per donne maltrattate, finora gestite da ONG afghane. Per rivolgersi ai rifugi le donne dovranno essere accompagnate da un parente maschio e riconsegnate alle famiglie che le richiedano.

Se continuano ad avvenire scambi politici così gravi sul corpo e la vita delle donne è responsabilità anche dei “paesi liberatori” fra cui l’Italia, che fin dall’inizio aveva assunto l’impegno di ricostruire il sistema giudiziario afghano e, se questi sono i risultati, deve rendere conto dei milioni investiti.

Noi Donne in Nero in questi anni abbiamo intrecciato relazioni con Associazioni di donne afghane(RAWA, HAWCA, OPAWC) che sono state una fonte preziosa di testimonianze e ci hanno fatto conoscere la coraggiosa capacità di resistenza non armata delle donne e della popolazione afghana.

Queste donne e le variegate voci della società civile costituiscono la resistenza democratica e nonviolenta del popolo afghano e chiedono il nostro sostegno per ottenere la fine dell’occupazione militare, che significherebbe per loro come prima cosa la fine dei bombardamenti aerei, principali (anche se non unici) responsabili della morte di oltre 40.000 civili dall’inizio della guerra.



Clicca qui per leggere una traduzione dell'intervista.

Non c’è pace senza giustizia.


  • Chiediamo che vengano processati i criminali e i signori della guerra presenti nel governo e nel paese.

  • Chiediamo a tutti i soggetti del mondo femminista, pacifista e nonviolento di unirci e individuare insieme pratiche, strumenti e form di opposizione per ritirare tutte le truppe dall'Afghanistan.

  • Non Lasciare che l'Afghanistan diventi l'ennesima grande base militare NATO.

  • Sostenere le forze civili democratiche a partire dalle donne.

  • Favorire la ricostruzione del paese, fuori dalle logiche militari.

I dati riportati nel presente appello sono tratti da organi di stampa e principalmente dai seguenti siti:


RAWA
Osservatorio Afghanistan
Associazione per la Pace
Sbilanciamoci
Peace Reporter
Rete Italiana per il Disarmo
Peace Link

venerdì 18 marzo 2011

Intervento militare "umanitario" da governi coinvolti nel commercio di armi

Nelle ultime settimane abbiamo visto con angoscia la crescente violenza in Libia: civili inermi uccisi e feriti con armi vendute dal nostro paese, e con un'intensa inquietudine abbiamo sentito di nuovo l'argomento per una "guerra umanitaria". Adesso, c'e' una risoluzione ONU che autorizza l'uso della forza militare incluso "tutte le misure necessarie". Il giornale statunitense "Wall Street Journal" cita ufficiali del Pentagon che parlano dell'uso di missili Cruise. Sappiamo bene quale e' il prezzo da pagare in "danni collaterali" per una tale strategia.
Noi rifiutiamo qualsiasi intervento militare che potrebbe avvenire con il pretesto di cercare di risolvere il conflitto da parte della NATO o di qualsiasi paese.

Riteniamo che Stati o organizzazioni che hanno sostenuto fino ad ora gli interventi contro la popolazione civile, come nei casi di Iraq, Afghanistan, Palestina, Cecenia, ecc o hanno commerciato in armi e negoziato con i dittatori non hanno autorità morale di sorta per intendere essere il "salvatore" del conflitto libico. Noi consideriamo questi paesi co-responsabili dei crimini contro la società civile, che ora è colpita dalla loro politica militarista.

L'ondata di resistenza civile che si mobilita il bacino del Mediterraneo, dal Magreb al Machrek trasmette al mondo un messaggio che va oltre la protesta contro i regimi dittatoriali sostenuti fino ad ora dal mondo occidentale. Ora stanno gridando: "Basta con l'ipocrisia e l'interventismo degli interessi economici e strategici!" Per questo motivo le donne in nero chiedono al governo europeo e al nostro stesso governo di cambiare la loro politica di pace, una politica di pace che nessun esercito dovrebbe essere assegnato a difendere. Chiediamo una politica che implica giustizia sociale e democrazia e che è libero dalla pressione di altri governi o multinazionali. Esso dovrebbe includere anche la sovranità del popolo ed evitare ogni discriminazione nei confronti di qualsiasi donna o uomo nella società. Significa una politica di pace senza armi.

Sono solo le donne e gli uomini in Libia, che dovrebbe svolgere il ruolo di primo piano per il loro presente e futuro. Sono loro che devono decidere se sono necessari mediatori per i negoziati nel conflitto.

Sappiamo per esperienza che solo gli aiuti senza l'intervento possono essere utili.
Per questo motivo, invitiamo tutti i governi, implicato nella vendita di armi ai regimi di Gheddafi, Ben Ali e Mubarak di inviare immediatamente aiuti umanitari a tutti i rifugiati che ora sono in fuga dalla Libia, quando richiesto dalla loro popolazione.


Ultimo ma non meno importante chiediamo che i nostri mezzi di comunicazione di massa dimostrino pieno rispetto e trasparenza nel trattare la realtà plurale del movimento di resistenza civile e la situazione della popolazione civile. Chiediamo di evitare la tendenza di presentare le notizie dal punto di vista militarista e solo dal punto di vista degli interessi occidentali.


Violenza genera violenza: evitiamo un intervento militare che potrebbe generare più violenza!




martedì 15 marzo 2011

Riprendiamoci le nostre vite indecorose e libere!






Non c'e' cancello,

nessuna serratura,
nessun bullone
che potete regolare
sulla liberta' delle nostre menti







Il 13 febbraio scorso noi do
nne ci siamo opposte alle politiche che soffocano le nostre vite e che hanno portato al progressivo restringimento dei nostri diritti e dei nostri spazi di libertà. Abbiamo attraversato piazza del Popolo, invaso le strade di Roma e ci siamo spinte fino a Montecitorio per “restituire al mittente” le leggi contro le donne approvate negli ultimi anni dai governi sia di centrodestra che di centrosinistra: le dimissioni in bianco, il collegato lavoro, la legge 40 sulla procreazione assistita, l’innalzamento dell’età pensionabile, il pacchetto sicurezza e tante altre.

Anche l’8 marzo riportiamo in piazza la stessa voce per rimettere al centro la questione della redistribuzione delle ricchezze: tra chi fa i profitti e chi sta pagando questa crisi, tra chi possiede palazzi e chi non ha casa, tra chi si giova di stipendi milionari e chi non ha un lavoro.




Vogliamo cont
estare chi mette in discussione la nostra autodeterminazione saturando le strutture pubbliche di obiettori di coscienza, limitando la diffusione della pillola RU486 o sostenendo la privatizzazione delle strutture sanitarie come i consultori (vedi la proposta di legge Tarzia per la regione Lazio), luoghi che noi invece vorremmo reinventare partendo dai nostri attuali bisogni.


Vogliamo ribellarci a una cultura e a un immaginario usati per controllare e
disciplinare i nostri corpi e la nostra sessualità. Dal lavoro alla sanità, infatti, l’unico ruolo legittimato per le donne è quello di moglie e madre. Eppure spesso nel momento dell’assunzione ci vengono fatti firmare fogli di “dimissioni in bianco” che il datore di lavoro potrà tirar fuori nel momento in cui dovessimo dichiarare di essere incinte.

Viviamo nel Paese della doppia morale, dove l’unico modello accettato e promosso è la famiglia eterosessuale, quella stessa famiglia in cui, come le statistiche ufficiali ci raccontano, avvengono la maggior parte delle violenze sulle donne attuate da mariti, compagni e padri. E’ anche per questo che rifiutiamo la precarietà: perché ci obbliga a dipendere economicamente e culturalmente da un modello relazionale che ci impedisce di poter scegliere dove, come, quando e con chi essere o NON essere madri.

Eppure la stessa retorica familista che dichiara di promuovere e sos
tenere la genitorialità, di fatto ne ostacola la possibilità a lesbiche, single, gay, trans e a tutti quei soggetti che sfuggono alla norma eterosessuale e cattolica.

Ed è sempre la stessa logica che da un lato stigmatizza e criminalizza le sex workers attraverso pacchetto sicurezza e campagne moraliste e sul “decoro”, e dall’altro ne fa un uso “spettacolarizzato” e strumentale al piacere maschile diffuso all'interno dei Palazzi del potere, ma non solo.

L’8 marzo scenderemo in piazza anche per smascherare le politiche razziste di questo governo che sfrutta il lavoro di cura svolto per la maggior parte da donne migranti e contemporaneamente le trasforma in “pericolose” protagoniste dell'“emergenza immigrati” oppure le priva della libertà e le rende vittime di violenze nei CIE.

Per tutte queste ragioni siamo in piazza l’8 marzo,
per rivendicare diritti e libertà, perchè i nostri desideri non hanno né famiglia né nazione, noi non siamo “italiane per-bene": siamo precarie, studentesse, lesbiche, trans, siamo donne che rifiutano il modello di welfare familistico, nazionalista, cattolico ed eterosessista.

Vogliamo riappropriarci delle nostre voci e dei nostri corpi e anche delle strade, della notte e delle nostre relazioni: rivendichiamo diritti, welfare e autodeterminazione.



Nessuna azione di resistenza può uccidere bambini

Aggiungiamo le nostre voci alla dichiarazione rilasciata da Luisa Morgantini, portavoce dell'associazione per la pace.

Esprimiamo una ferma condanna dell' assassinio di una famiglia della colonia di Itamar, nei pressi di Nablus.

Nessuna azione di resistenza può uccidere bambini. Non solo perchè è illegale ma perchè non è umano.

Il risultato di questa azione può portare solo maggiore violenza e non certamente la libertà a cui ha diritto il popolo palestinese.
A questo atto criminale Israele risponde, chiudendo ermeticamente la città di Nablus, ancora una volta con la rappresaglia e con la punizione collettiva di un'intera popolazione.
Una popolazione, quella palestinese, che già vive sotto un'occupazione militare brutale, che impedisce la libertà di movimento, confisca terre, demolisce case, sradica alberi, tiene la popolazione di Gaza sotto assedio, reprime la resistenza popolare nonviolenta e sostiene la follia dei coloni che giornalmente attaccano civili palestinesi, compresi bambini, come quelli di At Tuwani.

Le autorità Israeliane cercano di addossare la responsabilità dell'azione e ricattare l' Autorità Nazionale Palestinese, ma la responsabilità di questo atto criminale ricade sulle persone che l'hanno realizzata.
E' questo il frutto avvelenato della politica di colonizzazione israeliana e della complicità della Comunità Internazionale, che non impedisce ad Israele di violare continuamente la legalità Internazionale e i diritti umani.

Ribadiamo il nostro cordoglio per la morte dei bambini israeliani, la nostra solidarietà ai palestinesi colpiti dalla reazione israeliana, il nostro impegno a continuare nella lotta pacifica e nonviolenta insieme ai Comitati Popolari che hanno condannato l'attacco di Itamar e ribadito la scelta della resistenza nonviolenta contro il muro e l'occupazione militare israeliana, lotta che portano avanti insieme a quegli israeliani che rifiutano la politica coloniale del loro governo, e a quegli internazionali che mostrano ai loro governi la strada dell'affermazione del diritto e della legalità internazionale:

I Comitati Popolari ci impegniamo per la nonviolenza e la disobbedienza civile nella nostra lotta per porre fine all'occupazione israeliana. Anche se il reato è stato commesso in una terra colonizzata, vediamo l'uccisione di bambini come un crimine spregevole, indipendentemente dalla loro nazionalità, sesso, colore, razza o religione

lunedì 7 marzo 2011

Per la libertà e la giustizia. Contro la repressione e la pena di morte


Da oltre un mese ci arrivano notizie di ribellioni che si moltiplicano e si estendono dalla Tunisia all’Egitto, dall’Algeria allo Yemen, dalla Libia al Bahrein; si tratta di grandi manifestazioni popolari contro regimi dispotici e corrotti; donne e uomini, giovani e anziani/e chiedono pane e libertà, dignità e giustizia, equità sociale e partecipazione democratica.

Come Donne in Nero contro la guerra sentiamo il dramma delle repressioni sanguinose che stanno portando a centinaia le vittime in questi paesi: i poteri violenti stanno conducendo una vera guerra contro le persone inermi.

Anche il popolo iraniano, dopo trent’anni di vita difficile sotto la repressione del governo teocratico islamico, con l’azione pacifica del
Movimento Verde, chiede democrazia. La risposta del governo, però, è stata: pallottole, prigione, torture, condanne a morte.

Il recente e terribile incremento delle condanne a morte e la costituzione di tribunali ingiusti, stanno causando, ogni giorno, la morte di innumerevoli prigionieri politici e non. In base ai rapporti che ci sono giunti dall’Iran, dal 1 al 27 gennaio 2011 sono state eseguite 106 pene capitali, cioè una media di 20 esecuzioni a settimana, e molte persone sono ancora in lista.

Da molti mesi un gruppo di coraggiose madri iraniane ha protestato chiedendo l’abolizione della condanna capitale, la liberazione dei prigionieri politici, la punizione dei responsabili dei crimini compiuti negli ultimi trentuno anni. Le madri si riuniscono ogni settimana in Park Laleh, a Teheran. (v. Il loro sito in inglese http://www.madaraneparklale.org/p/about-us.html). Sono le madri in lutto - madri dei martiri degli ultimi 32 anni. Esse non chiudono gli occhi sulla perdita dei loro figli e chiedono che gli esecutori e i mandanti delle esecuzioni di massa, delle esecuzioni individuali, delle torture, delle violenze, degli assalti alle case ai dormitori degli studenti dagli anni 80 ad oggi vengano puniti. Come risposta, il regime le ha prese di mira, fermandone alcune e arrestandone altre, per soffocare le loro richieste di giustizia.

La rete delle Donne in Nero italiane da tempo conosce e sostiene questa lotta. Il 25 febbraio scorso, insieme a Amnesty International, ha partecipato a una conferenza stampa che si è tenuta nella Casa Internazionale delle Donne a Roma, in cui hanno intervenuto anche Luisa Morgantini, Sabri Najafi e Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003, donne che da sempre lottano per il rispetto dei diritti umani, malgrado i rischi che questo comporta.

Insieme alle madri di Laleh, chiediamo:
  • La libertà per tutti i prigionieri politici e di coscienza
  • La fine delle esecuzioni che solo nel mese Gennaio e l’inizio del mese Febbraio 2011 erano più di 100 persone.
  • L’abolizione della Pena di Morte.

Sosteniamo le lotte nonviolente delle madri di Park Laleh e della società civile iraniana; ci impegniamo a dare voce a queste donne e a far conoscere la situazione e il loro coraggio, completamente ignorati dai mezzi di comunicazione